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Campagna del WWF “SOS Plastica”

Campagna del WWF “SOS Plastica”

Rivolto alle imprese che utilizzano la plastica, rileviamo e pubblichiamo l’appello del WWF che lancia l’allarme sui pericoli che questo “killer silenzioso” procura alla popolazione. Dalla terra al mare, e poi di nuovo sulla terra, la plastica finisce nel nostro piatto

La plastica invade i mari e finisce per apportare i suoi nefasti effetti sulla  nostra salute. Per questa ragione il WWF ad agosto ha lanciato una campagna per contrastare l’uso della plastica da parte delle aziende che è stato rilanciata proprio in questi giorni al Salone Nautico di Genova.

Le ricerche dimostrano come la plastica – che sia una bottiglia o una busta (peraltro ormai illegale) – gettate in mare minaccino la fauna marina e la salute umana. Sono ben 3 miliardi i rifiuti che galleggiano o si trovano ammassati sui fondali marini del Mediterraneo. Tra questi quasi l’80% è di plastica.

La plastica contiene sostanze tossiche che vengono trasportate dalle correnti, gli oggetti di plastica si sminuzzano e vengono ingeriti da cetacei, pesci, uccelli marini: 267 specie colpite in tutto il mondo. Le sostanze tossiche contenute nelle particelle più piccole vengono invece trascinate dalle correnti e contaminano la catena alimentare oppure calamitano altri veleni presenti in mare, come il DDT o i PCB (policlorobifenili). Tutti elementi chimici altamente tossici.

Lo studio interdisciplinare “Previeni” condotto da WWF, Istituto Superiore di Sanità e altri centri scientifici (che alleghiamo in fondo all’articolo), mostra che gli elementi contenuti nelle plastiche interferiscono con la riproduzione umana. Ben 8 neonati su 10 hanno in circolo sostanze tossiche provenienti dalla plastica che hanno superato le barriere della placenta.

Naturalmente sono colpevoli soprattutto coloro i quali gettano in mare i rifiuti, spesso provenienti dalle industrie, ma anche dai naviganti che incrociano le acque del Mediterraneo con le proprie imbarcazioni, oppure i turisti sulle spiagge.

Il responsabile del Programma Mare del WWF, Marco Costantini, ha dichiarato che “in un Mediterraneo di qualità non c’è posto per un materiale inquinante così pericoloso e invasivo.  L’Italia ha 17.000 specie tra animali e vegetali, che tutto il mondo ci invidia ma che ogni anno vede 220 milioni di turisti concentrati in uno spazio che rappresenta appena l’1% dei mari globali”.

Il WWF chiede che tutti i naviganti segnalino i luoghi del Mediterraneo in cui si trovano rifiuti di plastica allo scopo di realizzare una mappa completa dei luoghi pericolosi. Dice Costantini: “Auguriamo che tutto il mondo della nautica si senta coinvolto in questa operazione che mira a conoscere a fondo il reale stato dell’inquinamento da plastica: occorre uno sforzo straordinario che soltanto unendo le forze sarà possibile completare”.

Con questo progetto si spera che entro il 2012 si arrivi a realizzare la prima mappatura interattiva dell’inquinamento nel Mediterraneo. Le segnalazioni possono essere inviate direttamente al WWF: http://mediterraneo.wwf.it/sos-plastica.html

Di seguito riportiamo il “Catalogo” in 10 punti, realizzato dal WWF, del pericolo della plastica sul mare:

1)    Spiagge di “sacchetti”

Secondo il rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Programme) “Marine Litter: A Glo¬bal Challenge” i sacchetti di plastica sono la quarta tipologia di rifiuti più frequentemente rinvenuti sulle spiagge del Mediterraneo (pari all’8,5% del totale), seguiti dalle bottiglie di plastica (9,8% del totale), le sigarette e i rispettivi mozziconi. Sospinti dal vento e dalle correnti, i rifiuti viaggiano anche per centinaia di migliaia di chilometri. Stime recenti (Barnes, 2009) indicano nel Mediterraneo 3 miliardi di rifiuti galleggianti o addensati sui fondali, di cui il 70-80% sarebbe costituito da plastica; questo dato si allinea con  uno studio precedente, secondo il quale i fondali del Mediterraneo sono quelli con la più alta quantità di rifiuti di tutte le coste europee (Galgani et al. 2000). Dati preoccupanti, che non vengono  sconfessati da altri monitoraggi.

2)    Sui fondali e nelle reti

Su un totale di 1.051 miglia nau¬tiche nel Mediterraneo sono stati prelevati oltre 500 kg di rifiuti marini, pari a 2.1 rifiuti mediamente presenti per chilometro quadrato, l’83% dei quali era costituito da plastica ( dati dell’HELMEPA – Hellenic Marine Environment Protection Association  su 14 rapporti realizzati da navi oceanografiche in diverse aree, dallo stretto di Gibil¬terra al sud di Cipro e dall’Adriatico al canale di Suez). L’Università di Patrasso (Koutsodendris, et al. 2008) ha monitorato le acque profonde in 4 dei maggiori golfi lungo la costa ovest della Grecia collezionando 3.318 rifiuti in un’area di 20 chilometri quadrati la cui profondità massima raggiungeva i 300 metri; il 56% dei rifiuti era plastica. L’Unep segnala anche lo studio effettuato sulla costa di El-Mina del Libano: dei rifiuti accidental¬mente catturati dalle reti di 10 pescatori vo¬lontari  il 78% erano plastici. Sui fondali della costa francese del Mediterraneo il 70% dei rifiuti rinvenuti in 3 spedizioni oceanografiche  (Galgani et al., 1996) erano sacchetti di plastica. Infine lo studio compiuto nell’arcipelago toscano da Arpat Toscana (2011) stima che in un’ora a bordo del peschereccio che opera con rete a strascico possono venir raccolti circa 4 kg di rifiuti, di cui il 73% costituito da materiale plastico.

3)    Specie in pericolo

Tartarughe, cetacei, uccelli marini: molte di queste specie inghiottono la plastica scambiandola per cibo o vi rimangono intrappolate morendo per fame o asfissia. Sarebbero almeno 267 le specie nel mondo nei cui stomaci si trovano pezzi più o meno grandi di plastica (Derraick 2002): tra queste l’86% delle diverse specie di tartarughe marine, il 44% di tutte le specie di uccelli marini e il 43% delle specie note di mammiferi marini,  valori – a detta degli stessi ricercatori – che potrebbero essere sottostimati. Uno studio delle Università di Valencia e Barcelona (Tomas et al. 2002), ha rilevato rifiuti nello stomaco di 43 di 54 esem¬plari di Caretta caretta catturate illegalmente nelle acque spagnole e nel 75,9% si trattava di pla¬stica. Casale et al. (2007) indicano la presenza di rifiuti antropici nel 48% di 95 esemplari di Caretta caretta catturate nel Mediterraneo Centrale, per lo più rifiuti di tipo galleggiante. Lo stesso mostra una recente ricerca (Lazar e Gracan, 2010): in Mar Adriatico una tartaruga Caretta caretta su tre nel proprio stomaco ospita non i soliti resti di molluschi, granchi o pesci poco veloci, sue prede abituali, ma sacchetti per la spesa, imballaggi, cordini, polistirolo espanso, filo per la pesca. Nello stomaco dei 7 esemplari di capodo¬gli (Physeter macrocephalus) spiaggiati a Manfredonia (Fg) sul litorale compreso tra Cagnano Varano e Ischitella nel dicembre 2009, c’erano sacchetti di plastica in quantità variabili tra pochi grammi e 1 kg circa (Mazzariol, 2010). Molte specie marine (Gregory 2009), tra cui squali e pesci, vengono soffocate da pezzi di plastica legati al capo.

4)    Un “passaggio” per gli alieni

I rifiuti che galleggiano in mare facilitano anche il trasporto di specie marine non native, dette anche ‘aliene’ (Gregory 2009), in quanto vengono colonizzati rapidamente da piccoli organismi marini nel punto in cui vengono gettati in mare; queste ‘zattere biologiche galleggianti’ persistono a lungo e vengono trasportate lontano da venti e correnti. Le specie aliene possono interagire con specie più ‘deboli’ creando problemi alla biodiversità.

5 ) il pericolo viene da terra

In Mediterraneo circa la metà dei rifiuti rinvenuti in mare aperto proviene dalle aree costiere e in particolare da attività ricreative. Questo, secondo il rapporto Unep, dipende da una gestione dei rifiuti che rimane sostanzialmente carente in molti stati che si affacciano sul Mar Mediterraneo ma anche dall’impatto dei 220 milioni di turisti che ogni anno assediano il Mare Mediterraneo. Uno studio svolto nelle isole Baleari, ad esempio, rivela che la quantità di rifiuti galleggianti rinvenuti in mare raddoppia d’estate rispetto all’inverno (Martinez-Ribes et al., 2007).

6)    Coriandoli tossici

La plastica è costituita da polimeri sintetici originati dal petrolio: col tempo non si distrugge ma si rompe gradualmente in pezzettini sempre più piccoli fino a diventare microscopici in un centinaio d’anni, ma la loro ulteriore degradazione sarà impossibile. La spedizione M.E.D. (“Méditerranée en danger”) 2010-2013, una grande campagna scientifica e ambientalista lanciata dall’Ifremer (Institut français de recherche pour l’exploration de la mer) e dall’Università di Liège (Belgio), con un’equipe di studiosi da una decina di laboratori universitari europei, ha calcolato  250 miliardi di micro-particelle di plastica (mediamente una particella pesa 1,8 milligrammi)  presenti sui litorali di Francia, Spagna e Nord-Italia, per 500 tonnellate complessive. I frammenti non sono distribuiti in modo omogeneo. In determinate aree sono più o meno numerosi in base al gioco delle correnti. Al largo dell’Isola d’Elba la spedizione ha trovato una concentrazione record: 892.000 frammenti per chilometro quadrato.

7)    catena alimentare compromessa

Ridotta a coriandoli la plastica è altamente tossica sia per il politetilene che la compone (anche insieme ai coloranti cancerogeni e agli additivi metallici spesso utilizzati per produrre sacchetti e altri generi di imballaggi) sia perché tende ad assorbire altri contaminanti organici, veri e propri veleni per tutti gli organismi animali (uomo incluso). I piccoli frammenti porosi agiscono come spugne per componenti pericolosi come il dichlorodiphenyldichloroethilene (DDE), il biphenil polyclorinato (PCB) e altri materiali nell’acqua dell’oceano. La plastica concentra così questi materiali tossici a livelli fino ad un milione di volte superiori di quelli normali per l’acqua marina (Rios et al., 2007). Piccoli pesci,  meduse e plancton se ne nutrono facendo entrare definitivamente la plastica nella catena alimentare. Pezzi microscopici di plastica sono già stati evidenziati in campioni di plancton negli anni 60, ma un aumento significativo in concentrazione è stato osservato dal 1960 fino ad oggi (Thompson et al, 2004). È stato dimostrato che anche gli organismi filtratori, come le cozze, possono mantenere singole microparticelle di plastica nella propria conchiglia per oltre 48 ore (Browne et al 2008), immaginiamo cosa succede quando le microparticelle sono milioni.

8)    Fondali in anossia

L’accumulo di rifiuti sui fondali marini blocca gli scambi gassosi tra i fondali e l’acqua sovrastante; la conseguente anossia (assenza di ossigeno) che si viene a creare modifica in maniera sostanziale e spesso distrugge in maniera irreversibile gli ecosistemi che lì si trovano (Goldberg, 1994).

9)    I veleni della plastica

Ad essere assimilate e accumulate sono soprattutto la diossina, il PCB, il PVC (Polivinilepolidrato), contaminanti definiti “persistenti” che si degradano ma si accumulano negli organismi viventi, continuando a penetrare nell’organismo attraverso la cute, le mucose, l’apparato respiratorio e l’alimentazione. Altre sostanze, come gli ftalati, plastificanti più comuni al mondo, usati principalmente per rendere morbido e flessibile il cloruro di polivinile (PVC) o i bisfenoli (BPA) inibitore della polimerizzazione del PCV, sono meno persistenti ma il loro vasto utilizzo fa sì che se ne trovino tracce anche nell’ambiente e nelle reti alimentari. Gli studi epidemiologici suggeriscono disfunzioni immunitarie e cambiamenti ormonali di lieve entità (di conseguenza molte di queste sostanze vengono dette “interferenti endocrini”) per queste sostante. Una recente review (Oehlmann et al. 2009 ) indica che ftalati e  bisfenoli agiscono sulla riproduzione di tutti i gruppi animali e bloccano lo sviluppo in crostacei e anfibi. Molluschi e anfibi sono particolarmente sensibili, gli effetti  sono stati osservati anche per concentrazioni di interferenti molto basse. Al contrario, tipicamente i pesci evidenziano impatti negativi per concentrazioni più alte, che però possono essere lo stesso raggiunte a causa dell’accumulo dei contaminanti nel tempo.

10)    Cade anche l’ultima “barriera”

Gli esseri umani non sono esenti dagli effetti di queste sostanze: Bisfenolo A e ftalati sono presenti nelle popolazioni umane. Anche se la tossicità di queste sostanze è ancora oggetto di numerosi studi, si pensa che siano potenziali impatti una diminuzione delle capacità riproduttive e un aumento dei tumori agli apparati riproduttori (Meeker et al. 2009). Secondo il recente studio ‘Previeni’, condotto dal WWF insieme all’Istituto Superiore di Sanità insieme all’Università La Sapienza di Roma/Ospedale Sant’Andrea, l’Università di Siena e finanziato dal Ministero dell’Ambiente, la prima analisi interdisciplinare sul rapporto tra gli “interferenti endocrini emergenti” (così chiamati perché ancora non studiati in maniera sistematica), queste sostanze sono anche in grado di superare la barriera, un tempo ritenuta invalicabile, della placenta, tanto che otto bambini su dieci nascono già “contaminati” dagli ftalati, anche se spesso i disturbi non sono evidenti. La ricerca completa, realizzata anche col supporto di alcune Oasi protette del WWF, verrà resa nota il prossimo 25 ottobre a Roma, presso l’Aula Magna dell’Università della Sapienza.

 

Allegati

pdf Progetto-Previeni-IstitutoSanita.pdf

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