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Venti anni di statistiche: Italia sotto la lente Istat

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Venti anni di statistiche: Italia sotto la lente Istat

Presentato a Montecitorio il ventesimo Rapporto Istat 2012, strumento di riflessione sulle condizioni sociali, economiche e ambientali dell’Italia. Situazioni di forte disequilibrio interessano soprattutto le donne, i giovani e il Sud. Dati positivi per quanto riguarda l’export

Donne più istruite e determinate ad ottenere successi nello studio e nel lavoro; donne sottopagate e costrette ad accettare lavori part time. Luci ed ombre emergono dal Rapporto Istat 2012 sulla situazione dell’Italia; a fare le spese della crisi e di una realtà sociale nota a tutti, sono come di consueto le donne, i giovani e chi vive al Meridione. I soggetti più deboli, in poche parole.

Il quadro che emerge – importante soprattutto in quanto l’Istituto nazionale di statistica ha fatto un raffronto di dati a venti anni dal primo rapporto – è poco edificante e prevedibile. È difficile trovare lavoro, soprattutto al sud; le donne fanno moltissima fatica a raggiungere i livelli più alti e la differenza di retribuzione rispetto ai colleghi maschi è molto forte e inizia dai redditi più bassi, aumentando progressivamente. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Le donne italiane tra i 25 e i 54 anni che non contribuiscono al reddito familiare sono il 33,7% e il confronto con la media dell’Unione europea, pari a quasi il 20%, è schiacciante; siamo quasi all’apice di questa classifica negativa, secondi solo a  Malta. Si tratta, probabilmente, di  donne che hanno smesso di lavorare per dedicarsi alla cura di anziani e familiari in difficoltà, oppure di madri che hanno deciso di restare a casa dopo il parto; o ancora, di persone che il lavoro hanno rinunciato a cercarlo.
Solo una coppia su venti contribuisce al reddito familiare in modo simmetrico e per tale motivo risulta meno sottoposta a pericolo di disagio economico. Il 24% delle donne è a rischio di povertà a causa della vulnerabilità della propria posizione, contro il 15% degli uomini.  Le famiglie con un solo lavoratore sono più svantaggiate, anche dal punto di vista fiscale, perché pagano in proporzione più tasse rispetto a chi ha un guadagno maggiore.

Il Rapporto Istat mette in evidenza come il fatto di essere donna abbia contato, in sé, più di qualunque altro fattore per quanto riguarda il trattamento diseguale, il calo dell’occupazione e il peggioramento della qualità del lavoro durante la crisi.
Dal 1993 al 2011 è cresciuta l’occupazione femminile, che ha riguardato circa un milione e mezzo di donne nel centro-nord e solo 196 mila nel Mezzogiorno, aumento dovuto soprattutto agli impieghi a orario ridotto, spesso subiti dalle donne, molte delle quali preferirebbero il lavoro a tempo pieno.

Non è migliore il destino dei giovani, almeno fino adesso. “Sono forti le disuguaglianze sociali” ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, direttrice generale del Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat “e i destini dei figli sono condizionati dai livelli di partenza delle loro famiglie. Per le giovani generazioni è difficile trovare un lavoro migliore di quello dei genitori, pur in presenza di un titolo di studio più alto. Inoltre,  la mobilità sociale è bloccata.”  I figli delle persone appartenenti alle classi sociali più elevate, infatti,  hanno molte probabilità di permanere nella classe sociale dei genitori, al contrario dei ragazzi appartenenti a un ceto sociale inferiore, che non riescono a cambiare status e a raggiungere posizioni migliori in società. Le differenze sociali sono evidenti già nei meccanismi formativi: il tasso di abbandono scolastico è più elevato per quanto riguarda i ragazzi che provengono dalle classi sociali più basse (30%) rispetto agli studenti delle classi più alte (10%) e la scuola non riesce a riequilibrare questa situazione, mancando a una delle sue missioni primarie.
La partecipazione scolastica delle donne è superiore a quella degli uomini e il 78% delle ragazze ottiene il diploma, contro il 69% dei loro compagni. E’ aumentata  la speranza di vita di tutti, passando da 80 a 84 anni per le donne e da 74 a 79 per gli uomini. L’Italia risulta essere uno dei paesi con il più alto livello di invecchiamento e con bassa fecondità, sebbene quest’ultimo dato sia lievemente migliorato, grazie al contributo delle donne straniere, i cui comportamenti stanno, tuttavia, avvicinandosi a quelli delle italiane.
I giovani non riescono ad andarsene da casa: quattro su dieci, di età tra 25 e 34 anni, vivono ancora nella famiglia d’origine, quasi la metà dei quali a causa della mancanza di lavoro e di risorse. In venti anni si è dimezzata la quota di giovani che escono dalla famiglia per sposarsi. Il matrimonio, del resto, non è più un obiettivo da perseguire, anche al sud: le coppie preferiscono convivere e, quando decidono di sposarsi, preferiscono il rito civile, soprattutto al nord (48% dei matrimoni) e al centro (43%).

Tornando alle disuguaglianze, nel  Mezzogiorno la situazione più squilibrata riguarda i servizi, in particolare quelli sanitari, l’assistenza domiciliare, le strutture residenziali per anziani. Un dato inaspettato, su cui riflettere, è quello relativo alla spesa sociale: un disabile o un anziano bisognoso di assistenza percepisce al Sud Italia un terzo rispetto a uno del Nord: 50 euro contro i 165 degli abitanti del Nord.
Sono diminuiti complessivamente gli omicidi dal 1992 ad oggi, anche per effetto dell’azione di contrasto della mafia, eppure la percentuale non è calata con riferimento alle donne, perché questi delitti vengono consumati nell’ambito familiare.

Le opportunità di crescita provengono dall’export, che ha registrato una crescita dell’11,4% nel 2011, anche se si registrano segnali di perdita di competitività sui mercati internazionali.
“Se rigore, crescita ed equità costituiscono il trinomio su cui costruire il futuro del nostro Paese” ha detto il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini a Montecitorio in occasione della presentazione del Rapporto, “non si può dire che il cambiamento avverrà con gradualità. E che in questo ‘tempo di mezzo’, non breve e non facile, è indispensabile il massimo sforzo da parte di tutte le componenti della società, in nome di questo obiettivo comune, per rendere sostenibile sul piano sociale il percorso che ci attende. Per realizzare gli obiettivi di benessere  duraturo a cui vogliamo tendere è indispensabile superare le attuali diffidenze e difficoltà, pur comprensibili, che serpeggiano nei paesi europei. A venti anni di distanza non si può non ribadire la irrinunciabilità della prospettiva europea per fronteggiare con successo l’attuale processo di globalizzazione e assicurare un futuro prospero alle nuove generazioni.”

Gianfranco Fini  ha invitato a rammentare che l’Europa è, tuttora, la prima potenza commerciale del mondo e che il Prodotto interno lordo dell’area euro è solo di poco inferiore a quello degli Stati Uniti. “La consapevolezza delle criticità oggettive di cui soffrono i sistemi economici europei, e quello italiano in particolare” ha sottolineato il presidente della Camera “non può autorizzare una lettura negativa, che purtroppo sembra prendere piede anche in autorevoli organizzazioni internazionali”. La chiave di volta, suggerisce Fini, è ancora una volta l’equilibrio: fra partner europei, questa volta, perché la storia del nostro continente dimostra che i progressi e le fasi di crescita si sono realizzati quando il percorso non è stato deciso da un unico paese, ma è stato individuato grazie all’incontro e all’armonizzazione di esigenze differenti.

Daniela Delli Noci

 

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