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L’Italia ha una cattiva reputazione e gli investimenti esteri calano

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Calano del 58% gli investimenti esteri dall’inizio della crisi. Perché? Non siamo in grado di attrarre capitali stranieri: avviare un’impresa costa troppo, ha tempi troppo lunghi, c’è troppa burocrazia, per risolvere una controversia giudiziaria ci vogliono anni

Occupiamo il 65° posto nel mondo per procedure, tempi e costi necessari per avviare un’impresa, ottenere permessi di costruzione, risolvere una controversia giudiziaria. Se vogliamo parlare di uscita dalla crisi e di ritorno alla crescita economica, dobbiamo avere anche le idee chiare su ciò che non va nel nostro Paese. Una bella occasione la fornisce l’analisi del calo degli investimenti esteri: se decidono di non investire le imprese estere – e le grandi imprese italiane pensano di trasferirsi all’estero – un motivo c’è, ed è lo stesso per il quale anche le imprese italiane riescono a malapena a sopravvivere, soprattutto se sono micro e PMI.

I dati emersi dalle ricerche del Censis pubblicate sul “Diario della Transizione” con l’obiettivo di descrivere i principali temi in agenda in questo anno “di passaggio”, riescono a fornire un quadro della situazione italiana ben definito. Vediamoli.

Gli investimenti diretti esteri in Italia sono stati pari a 12,4 miliardi di euro nel 2013. Rispetto al 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi, quegli investimenti che potrebbero rilanciare la crescita e favorire l’occupazione sono diminuiti del 58%.
I momenti peggiori sono stati il 2008, l’anno della fuga dei capitali, in cui i disinvestimenti hanno superato i nuovi investimenti stranieri, e il 2012, l’anno della crisi del debito pubblico.

La crisi ha colpito tutti i Paesi a economia avanzata, ma l’Italia si distingue per la perdita di attrattività verso i capitali stranieri.
Nonostante sia ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d’Europa e la quinta nel mondo, la nostra nazione detiene solo l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8% della Spagna, il 3,1% della Germania, il 4,8% della Francia, il 5,8% del Regno Unito.

La reputazione è oggi un fattore decisivo per favorire la competitività di un Paese ma proprio questo è il punto debole dell’Italia, che ha un “deficit reputazionale” accumulato negli anni a causa di:

  • corruzione diffusa,
  • scandali politici,
  • pervasività della criminalità organizzata,
  • lentezza della giustizia civile,
  • farraginosità di leggi e regolamenti,
  • inefficienza della pubblica amministrazione,
  • infrastrutture carenti.

Tutto ciò danneggia il valore del Sistema Italia, rappresentato dal Made in Italy, dalle eccellenze manifatturiere, dall’italian way of life, dalle bellezze artistiche e paesaggistiche. Si tratta di una serie di attrattive che restano solide ma non per gli investitori. Infatti l’Italia occupa solo il 65° posto nella graduatoria mondiale dei fattori determinanti la capacità attrattiva di capitali per un Paese dal momento che le procedure, i tempi e i costi necessari per avviare un’impresa, ottenere permessi edilizi, allacciare una utenza elettrica business o risolvere una controversia giudiziaria su un contratto sono ridicolmente lenti.

Siamo ben lontani dalle prime posizioni di Singapore, Hong Kong e Stati Uniti, ma anche da Regno Unito e Germania, posizionati rispettivamente al 10° e al 21° posto.
In tutta l’Europa solo Grecia, Romania e Repubblica Ceca presentano condizioni per fare impresa più sfavorevoli delle nostre.

Per ottenere tutti i permessi, le licenze e le concessioni di costruzione, in Italia occorrono mediamente 233 giorni, in Germania (che è al 21° posto) ne occorrono 97.
Per allacciarsi alla rete elettrica servono 124 giorni in Italia, 17 in Germania.
Per risolvere una disputa relativa a un contratto commerciale il sistema giudiziario italiano impiega in media 1.185 giorni, quello tedesco 394.

Secondo la classifica del Reputation Institute di New York, che si basa su 42.000 interviste volte a misurare fiducia, stima, ammirazione, interesse verso una cinquantina di Paesi, nel 2013 l’Italia si colloca in 16ª posizione, ma abbiamo perso 4 posizioni rispetto al 2009, quando eravamo al 12° posto. Come dicevamo, l’Italia si posiziona in alto per quanto concerne indicatori come lo stile di vita, ma non primeggia per i fattori di sostegno allo sviluppo. Ne discende il forte interesse per il nostro Paese nel turismo e per l’acquisto di beni a elevata valenza simbolica, molto meno come area di destinazione di investimenti.

Il nostro Paese esporta soprattutto grazie alla qualità della propria manifattura: l’Italia è tutt’oggi l’11° esportatore al mondo, con una quota del 2,7% dell’export mondiale.

Inoltre, siamo un Paese che attrae persone: l’Italia è ancora la 5ª destinazione turistica al mondo (dopo Francia, Usa, Cina e Spagna), con più di 77 milioni di stranieri che varcano ogni anno le nostre frontiere (+4,1% tra il 2010 e il 2013).
Siamo anche un Paese molto presente nel resto del mondo: si stimano in circa 60 milioni le persone di origine italiana residenti all’estero (15 milioni solo negli USA), più di 20.000 sono le imprese a controllo nazionale localizzate oltre confine (con 1,5 milioni di addetti e 420 miliardi di euro di fatturato), sono 25.000 le imprese associate alla rete di 81 Camere di commercio italiane presenti in 55 Paesi, sono 4,3 milioni gli italiani residenti all’estero e il loro numero cresce rapidamente (+132.000 nell’ultimo anno).
Anche i nostri ricercatori e i nostri studenti si recano spesso all’estero: 2.673 sono i ricercatori italiani attualmente operanti all’estero, 23.400 gli studenti italiani inseriti nel programma Erasmus, 62.580 i giovani italiani che studiano in università straniere.

E sempre riguardo ai giovani ecco una fotografia che ci deve far riflettere: se la disoccupazione giovanile ha raggiunto la quota record del 46% nel primo trimestre 2014, il valore più alto dal 1977, tanto da collocarci agli ultimi posti della graduatoria europea, l’Italia è prima in Europa per numero di giovani «own account workers», ovvero lavoratori in proprio e senza dipendenti: 1,3 milioni sotto i 40 anni nel 2013, circa il 15% degli occupati di questa fascia di età, il doppio della media dell’area dell’euro (7,5%).
Uno dei più gravi punti di debolezza però resta il sistema dell’istruzione: i laureati italiani fra 30 e 34 anni sono ancora il 22,4%, un dato lontanissimo da quello di Gran Bretagna (48%), Francia (44%) e Germania (33%).

Ma le performance negative non si limitano ai giovani. Per quanto riguarda gli adulti di età compresa tra i 16 e i 65 anni, l’Italia è ultima per competenze «alfabetiche» (linguistiche ed espressive) rispetto a tutti gli altri 24 Paesi considerati dall’Ocse.
E dunque la domanda sorge spontanea: come possiamo uscire dalla crisi se non comprendiamo che l’acquisizione delle competenze è il primo passo, in qualsiasi direzione si voglia andare.

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