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Le aziende familiari devono ringiovanire

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Presentati i dati dell’ultimo Osservatorio AUB (AIdAF, UniCredit, Bocconi e Camera di Commercio di Milano) su tutte le 15.722 aziende con ricavi superiori a 20 milioni di euro e sulle 10.231 aziende familiari italiane. Ecco i risultati

Secondo il VII Osservatorio AUB, presentato il 10 dicembre 2015 presso la Borsa Italiana, nelle 10.231 aziende familiari italiane la crescita e i risultati sono migliori di quelli delle altre imprese, ma l’aumento dell’età dei leader si accompagna a un peggioramento delle performance.

Anche se le aziende familiari vincono il confronto con le non familiari in termini di crescita, di redditività e di creazione di posti di lavoro, la loro sostanziale passività in termini di acquisizioni e l’invecchiamento dei responsabili d’azienda fanno suonare un campanello d’allarme per il futuro.

Preoccupante il fatto che l’età dei leader delle aziende familiari italiane (amministratori delegati, amministratori unici o presidenti esecutivi, a seconda della governance scelta) sia molto elevata e che con l’età del leader peggiorino le performance aziendali. Il 22,6% dei leader ha più di 70 anni (e un altro 24,6% supera i 60) e solo il 5,3% meno di 40, con le aziende gestite dai più anziani che registrano un Roe inferiore di 0,8-1,2 punti (a seconda della classe dimensionale) rispetto alla media e quelle gestite dai più giovani che hanno un risultato migliore di 1,9-2 punti.

L’Osservatorio AUB sulle aziende familiari italiane curato da Guido Corbetta, Alessandro Minichilli e Fabio Quarato della Cattedra AIdAF-EY di Strategia delle aziende familiari (cattedra in memoria di Alberto Falck) in collaborazione dunque con l’AIdAF (Associazione Italiana delle Aziende Familiari) e il Gruppo UniCredit, permette di avere informazioni dettagliate ed aggiornate relative alla proprietà, alla governance, al management e alle performances economiche e finanziarie di tutte le aziende italiane a proprietà familiare aventi un fatturato – da quest’anno pari o superiore a 20 milioni di euro.
Questo Osservatorio rappresenta la prima iniziativa in Italia che punta ad aiutare le imprese, la dirigenza e le istituzioni a comprendere le caratteristiche uniche e i bisogni di questo particolare tipo di aziende.

I dati di questa edizione sono eccezionalmente rappresentativi dell’universo dell’impresa italiana perché l’Osservatorio monitora tutte le 15.722 aziende con fatturato superiore a 20 milioni di euro (fino allo scorso anno l’Osservatorio analizzava solo le imprese con fatturato superiore ai 50 milioni), responsabili del 66,5% del valore aggiunto delle imprese italiane attive in industria e servizi e del 33,1% della loro occupazione. Si focalizza poi in maggiore dettaglio sulle 10.231 aziende a controllo familiare, che hanno un fatturato complessivo di 790 miliardi di euro e impiegano 2,3 milioni di lavoratori, 1,5 dei quali in Italia.

Nel periodo 2010-2014 le imprese familiari hanno aumentato il numero di dipendenti del 5,3% medio l’anno, contro l’1,2% delle non familiari. Il trend di crescita del fatturato è allineato a quelle non familiari per quanto riguarda le piccole imprese (20-50 milioni di fatturato), ma sostanzialmente maggiore per quelle medio grandi (più di 50 milioni): fatto 100 il fatturato del 2007, quello del 2014 è stato 126,4 per le non familiari e 133,6 per le familiari. In termini di redditività, invece, i risultati migliori delle imprese familiari riguardano tutte le dimensioni: il Roi è del 7,8% contro 6,8% per le medio-grandi e dell’8,6% contro 7,4% per le piccole.

“Dobbiamo però tenere sotto osservazione due segnali” dice Guido Corbetta, titolare della Cattedra AIdAF-EY: “la scarsa capacità di crescita esterna attraverso acquisizioni e l’elevata età di chi dirige le aziende familiari”.

Tra il 2000 e il 2014 solo il 6,7% delle aziende familiari ha realizzato almeno un’acquisizione, contro il 9,1% delle non familiari – che rimane comunque un dato molto basso.
Anche gli investimenti diretti all’estero riguardano una minoranza delle imprese, ma in questo caso le aziende familiari (il 29,6% di esse ne ha effettuati) sono più attive di quelle non familiari (21,3%).

Più preoccupante il fatto che l’età dei leader delle aziende familiari italiane (amministratori delegati, amministratori unici o presidenti esecutivi) sia molto elevata e che con l’età del leader peggiorino le performance aziendali, come abbiamo visto.
Un segnale positivo è il riavvio, dopo gli anni della crisi, del processo di successione generazionale. “Ne è un significativo indicatore” sostiene Corbetta: “la crescente diffusione della forma di leadership collegiale, che prevede più di un amministratore delegato, e che viene spesso usata per affiancare un rappresentante della generazione successiva alla generazione precedente. Questa riguardava il 35,8% delle aziende familiari medio-grandi nel 2007, ma è arrivata al 41,4% nel 2014”.

“La necessità di crescere anche attraverso acquisizioni e l’elevata età di chi ricopre ruoli operativi sono elementi delicati che le imprese familiari stanno affrontando” afferma il presidente di AIdAF, Elena Zambon. “Entrambi hanno un tratto comune: il coraggio di cambiare, recuperando l’amore per il rischio, caratteristica fondamentale dell’essere imprenditore. In questa fase storica, agli imprenditori di generazioni successive a quella dei fondatori sono richieste doti differenti e particolari. Ad esempio, la capacità di affrontare con serenità una modalità di lavoro diversa che delega manager capaci di analizzare, valutare e chiudere operazioni talvolta complesse, ‘osservando’ altri guidare l’azienda sperimentando anche stili diversi, mettendo da parte il proprio ‘ego’ e accettando possibili errori senza i quali non esiste progresso. A mio avviso, è altrettanto importante che la suddivisione di deleghe a più amministratori delegati sia frutto di una riconosciuta complementarietà, per avere a disposizione competenze diverse, e non piuttosto un modo per rinviare nel tempo una scelta necessaria che deve soprattutto fare chiarezza nella conduzione manageriale dell’impresa. La leadership collegiale è di difficile applicazione armonica, anche se quando coinvolge persone capaci ed intelligenti può essere più duratura di altri modelli”.

“Analizzando i risultati del rapporto AUB” sottolinea Alessandro Cataldo, responsabile Corporate Sales & Marketing UniCredit, “emerge che le aziende familiari rappresentano l’ossatura dell’economia nazionale (il 65% delle aziende con oltre 20 milioni di euro di fatturato), dei veri e propri fiori all’occhiello del nostro made in Italy. UniCredit vuole essere a fianco di queste imprese per cogliere le sfide che dovranno affrontare e che emergono chiaramente dal rapporto: quella della continuità (il 22% dei leader familiari sono ultrasettantenni e i passaggi generazionali ancora pochi), della crescita per linee esterne (solo il 7% ha intrapreso percorsi di questo tipo) e tramite internazionalizzazione (il 30% delle aziende in questione ha almeno una partecipazione all’estero). La banca vuole essere vicina alle imprese non solo attraverso la concessione del credito, ma anche con una consulenza a 360° sia per operazioni di M&A, di identificazione di nuovi paesi nei quali entrare e nella ricerca di controparti con le quali fare nuovo business. UniCredit c’è anche nei momenti di discontinuità più importanti come la definizione di governance adeguate a un contesto in continuo cambiamento. Per fare tutto questo al meglio UniCredit si pone da anni come interlocutore unico per la famiglia e l’impresa. L’unitarietà dell’approccio, con piena condivisione delle informazioni tra famiglia azienda e banca, è la chiave per una risposta a 360° dei bisogni delle imprese”.

“Le imprese familiari” conclude Alberto Meomartini, Vicepresidente della Camera di Commercio di Milano, “sono alla base del nostro sistema economico, esempio vivo del modo di fare impresa italiano e milanese nel mondo. Imprese che hanno resistito alla crisi e che soprattutto sul nostro territorio costituiscono un esempio di capacità di innovazione ed apertura internazionale ma che si trovano ora ad affrontare la difficile sfida del ricambio generazionale”.

Come, d’altronde, nel resto d’Italia: purtroppo se gli anziani non lasciano il posto ai più giovani sarà impossibile lottare contro la disoccupazione giovanile e ridare slancio innovativo al Paese.

(D.M.)

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