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Lavoro e famiglia: il binomio che fa paura alle donne italiane

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Il nuovo rapporto Istat sulla condizione delle donne in Italia riapre il dibattito sulle mamme lavoratrici, mentre nuovi passi avanti si fanno verso l’abolizione delle dimissioni in bianco

di Angelica Basile

Il nuovo volume “Come cambia la vita delle donne”, curato dall’Istat, analizza i mutamenti che hanno interessato la condizione femminile in Italia nel decennio 2004-2014. Lo studio restituisce un quadro preciso ed attento di un universo rosa dinamico e moderno, di una donna che lavora, che si informa (e si forma) sempre di più e che tenta, soprattutto, di conciliare famiglia e lavoro, nonostante le tante, tantissime difficoltà che la crisi le ha posto di fronte. 

È oppurtuno soffermarsi maggiormente proprio su questo ultimo punto, uno dei nodi più complessi di questa nostra società del nuovo millennio, che troppo spesso mette all’angolo il più debole. E spesso sono le donne ad essere trattate da deboli, solo perché classificandole in tal senso si pensa di poterle controllare maggiormente.

Per iniziare questo viaggio nel mondo femminile che cambia si potrebbe partire leggendo i titoli dei paragrafi del volume dell’Istat. Alcuni di essi sono esemplificatori proprio del complesso binomio lavoro-famiglia:
“Aumentano le donne che posticipano l’uscita dalla famiglia di origine”,
“Cresce l’età al matrimonio e si diversificano i percorsi di costituzione della famiglia”,
“Le donne diventano madri più tardi e fanno meno figli”,
“Le donne sperimentano più che in passato separazione/divorzio”,
“La nascita dei figli: un momento ancora critico per il mantenimento del lavoro”,
“Le donne adottano strategie di conciliazione tra lavoro e famiglia”.

Secondo lo studio, il 44% della popolazione femminile italiana ha rinunciato a lavorare o non ha potuto iniziare “a causa” della creazione di una famiglia. Questo significa che circa 10 milioni di donne hanno dovuto dire no ad un incarico nuovo o già acquisito.
In particolare, il 14,7% del gentil sesso in media ha lasciato il lavoro per la nascita di un figlio, il 20,1% per la nascita di 2 figli, il 17,9% per la nascita di 2 o più figli.

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Seguendo la tabella si nota come il fenomeno abbia interessato maggiormente le donne giovani rispetto a quelle più mature. La forbice tra giovani (25-34 anni) e over 65 si allarga all’aumentare del numero dei figli. Il 13,8% delle giovani ha lasciato il lavoro alla nascita del secondo figlio, mentre solo l’8,7% delle più mature lo ha fatto trenta/quaranta anni fa.

Le soluzioni a questo problema sono soprattutto di tre ordini:

• lavoro part-time
• rete informale di aiuti
• servizi pubblici e privati

Sebbene siamo, infatti, ancora lontani dagli standard europei del part-time, questa sembra essere la modalità lavorativa che più si addice ad una mamma (il 24,9% delle donne con part-time hanno dei figli, solo l’8,6% è invece single). Ma, appunto, in Italia lavorare 20/24 ore settimanali significa non avere uno stipendio sufficiente per il mantenimento di una famiglia.
Quando si parla, invece, di rete informale di aiuti si considerano nonni, parenti, amici che aiutano una mamma lavoratrice almeno fino al tredicesimo anno di età del figlio.
Tra i servizi pubblici e privati, è il nido quello più utilizzato: il 75% dei bimbi che ci vanno hanno una mamma che lavora.

Il complesso fenomeno dell’interruzione del lavoro riguarda soprattutto le donne che lavorano nel privato (26,9%), con un contratto a tempo determinato, occasionale o stagionale (40,3%).
Il 69% delle interessate si è licenziata; al 23,9% non viene rinnovato il contratto; nel 6,9% dei casi c’è stato un licenziamento in tronco.

Lo strano caso delle dimissioni in bianco

C’è uno spettro che si nasconde tra le righe di questi dati: quello delle dimissioni in bianco. Tante, troppe donne sono state costrette a firmare, insieme ad un contratto, anche la lettera di dimissioni priva di data, utilizzata dai datori di lavoro per mandarle via nel caso di una gravidanza. Per questo quel 69% di donne che si è licenziata non è un dato completamente veritiero. All’interno di quel gruppo c’è anche quella parte di popolazione femminile del nostro Paese che è stata obbligata a sottostare a questa logica assurda, secondo la quale una donna è una risorsa fin quando “non crei problemi”. E quei problemi si chiamano figli.
Ma, secondo moltissimi studi, sono le persone soddisfatte della propria vita personale e lavorativa a dare il meglio sul luogo di lavoro. La scelta di non avere figli è un sacrosanto diritto di ogni donna; ma deve essere, appunto, una scelta. Come si può pensare che una donna con il desiderio di diventare madre, sentendosi frustrata perché costretta a rinunciare al proprio sogno per tenersi stretto il posto di lavoro, possa dare il 100% ad un’azienda? Dovrebbero essere gli stessi datori di lavoro a considerare che lasciare un diritto inviolabile alle donne che lavorano per loro, significa non solo rispettarle, ma anche gratificarle, e quindi – in un certo senso – renderle comunque più produttive.

Sebbene siamo molto lontani dal fare nostra (come Paese) questa logica, un piccolo grande passo avanti è stato fatto proprio all’inizio del 2016. L’11 gennaio è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il Decreto Ministeriale che stabilisce l’obbligo delle “dimissioni telematiche”, in formato digitale, nelle quali compare una data certa, impossibile da alterare. Ogni modulo è infatti dotato di un codice identificativo e una data di trasmissione, per cui non sarà più possibile ricorrere al terribile stratagemma delle dimissioni in bianco.

Nel gennaio 2013 era comparsa sul sito failanotizia.it la testimonianza di Livia, trentaduenne proveniente dalla Romania, vittima della pratica delle dimissioni in bianco: “E poi ci sarebbe questo foglio da firmare. È la prassi, signorina. Così mi hanno detto. E io ci ho scritto nome e cognome, senza pensarci su. Non potevo certo immaginare di aver firmato le mie dimissioni”. Livia, oltre al danno, aveva subito anche la beffa: l’Inps, infatti, non aveva potuto neanche darle l’assegno di disoccupazione quando il capo l’aveva mandata via, in quanto previsto solo in caso di licenziamento.

La storia di Livia è la storia di tante donne e molto spesso Donna In Affari si è occupata di questo tema così delicato, soffermandosi su tutte quelle misure statali e private in favore delle mamme lavoratrici.

• Nel gennaio 2012, l’iniziativa “188 firme per la legge 188″ si occupava proprio di questo e Liliana Ocmin (Segretario Confederale CISL) aveva dichiarato che “Noi donne del sindacato, del giornalismo, della società civile, della politica, noi che abbiamo promosso quella legge nel 2007, chiediamo al Presidente del Consiglio, ai Presidenti di Camera e Senato, alla Ministra Fornero ed alle parlamentari di tutti i gruppi presenti alla Camera ed al Senato, di assumere un impegno concreto per un intervento legislativo urgente ed efficace contro le dimissioni in bianco”.

• Nell’agosto 2014 la regione Valle D’Aosta aveva annunciato l’erogazione di un “Voucher di Conciliazione”: si trattava di un importo che arrivava fino a 1.500 euro e che era destinato alle persone che si prendono cura dei bambini fino a 13 anni di età, dei disabili o degli anziani presenti nel nucleo familiare. Le mamme lavoratrici potevano usarlo per pagare i servizi di assistenza e accompagnamento ai minori svolti da una figura di sostegno alla famiglia.

• Nel settembre 2014, Donna In Affari riportava la dichiarazione di Maria Pia Mannino, responsabile nazionale Pari opportunità della UIL, in occasione dell’annuncio di apertura di mille asili nido, i quali – secondo lei -: “non risolveranno la situazione di migliaia di lavoratrici italiane e il Presidente del Consiglio dovrà impegnarsi di più in tema di uguaglianza e parità, magari affidando finalmente la delega delle pari opportunità ad una persona che sappia fare sintesi delle effettive necessità delle donne e delle famiglie che, con molta difficoltà, stanno contrastando una crisi ancora molto lontana dall’essere risolta”.

• Nell’ottobre 2014, in occasione dell’uscita del volume La maternità è un master, Riccarda Zezza (Presidente di Piano C e autrice insieme ad Andrea Vitullo, Founder e CEO, Inspire srl, di Maam) dichiarava che “La famiglia […] è un’impresa”.

• Nello stesso mese,in Calabria, Giovanna Cusumano, presidente della Commissione regionale delle Pari Opportunità dichiarava che «Una prima proposta è quella di istituire un assegno a tempo per le donne che decidono di separarsi e vivono in condizioni di disagio e povertà; una seconda proposta è quella rivolta alle donne che hanno figli di età inferiore ai tre anni: per loro proponiamo un lavoro part-time con una retribuzione pari al full time».

• Nel gennaio 2015, veniva presentato il Voucher Servizi Baby Sitting, per il quale erano arrivate più di 10.000 domande in 15 giorni. Il Voucher permetteva alle lavoratrici di richiedere un contributo economico utilizzabile alternativamente per il servizio di baby-sitting o per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati.

• Nel maggio 2015, si parlava del Bonus Bebè istituito dall’Inps. L’assegno decorre dalla data di nascita (o di ingresso in famiglia per i bimbi adottati) ed è corrisposto in rate da 80 euro al mese fino al terzo anno di vita del bambino, oppure fino al terzo anno dall’ingresso in famiglia del figlio adottato o in affido preadottivo.

Le iniziative sono molte. Le persone che credono che qualcosa possa cambiare davvero ancora di più. Ma non è facile sdoganare l’idea della donna custode del focolare radicata nella mentalità italiana. Una mamma che lavora è una risorsa importantissima, per la società, per la cultura, per un Paese e chissà che un giorno il binomio lavoro-famiglia non faccia più così paura.

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