Studi e ricerche

Economia e sviluppo, la via da percorrere

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Il punto del Censis sulla situazione economica italiana

di Serena Selvarolo

“Lo sviluppo dal basso guidato dai soggetti dell’economia reale” questo il titolo dell’evento organizzato dal Censis a Roma lo scorso 1° giugno, dedicato al tema del ritrovare la via dello sviluppo secondo il modello italiano.

Massimiliano Valerii, Direttore Generale dell’istituto, ha aperto i lavori affermando come l’attenzione politico-istituzionale sulla ripresa economica sia tutta concentrata sulla leva della politica monetaria, con il rilancio del “quantitative easing” della Bce, mentre nella realtà si riaffermano i fondamentali dello sviluppo italiano che si basa sulla piccola e media impresa e sull’economia di filiera.

 

Della lettura dell’analisi fatta dal Censis, il segretario generale Giorgio De Rita ha posto l’accento sui primi deboli segni di ripresa dell’economia italiana da una crisi durata quasi dieci anni. In questo periodo lo scenario che si è venuto a delineare è costituito dal livello dei consumi prima in contrazione e poi assestati verso il basso, dagli investimenti pubblici e privati ridotti all’essenziale con pochissima propensione al rischio e dalla pubblica amministrazione in retromarcia e tutta concentrata sui processi interni di revisione della spesa. Inoltre – ha continuato De Rita – il livello dei servizi e della produttività di sistema sono stati finora condizionati più dalla razionalizzazione dei costi, e dalla conseguente esclusione di porzioni sempre più ampie di giovani e lavoratori qualificati, che non dall’essere sostegno di un nuovo ciclo di sviluppo.

 

Potenzialità bloccate

Secondo il Censis, l’economia e la società italiana hanno saputo resistere alla crisi meglio di altri Paesi ma lo hanno fatto bloccando lo sviluppo delle potenzialità delle tante pluralità territoriali della piccola e media impresa andando ad incidere sulla flessibilità del lavoro e dei sistemi di protezione sociale che si erano fino ad allora andate accumulando. Una delle mancanze principali delle piccole e medie imprese italiane è stata quella di non considerare con la dovuta attenzione l’economia dell’innovazione, ovvero la società digitale, che è opinione universale rappresenti invece proprio il campo in cui seminare per ritrovare crescita economica e sviluppo sociale.

Ci sono ovviamente delle eccellenze, ma il sentore comune è che la maggior parte delle aziende siano rimaste a guardare se questo nuovo ecosistema economico avrebbe avuto o meno forza sufficiente per trainare il Paese.

Anche l’indice europeo sull’economia e società digitale (DESI Index) vede l’Italia agli ultimi posti in classifica, davanti solo alla Grecia, alla Bulgaria e alla Romania.

Il risultato è quello di un Paese a basso potenziale, frastornato dalla crisi, incerto, appesantito e affaticato dalla burocrazia opprimente o dall’evasione fiscale e contributiva che ha indebolito fin troppo le basi su cui poggiava il suo sviluppo: la piccola e media impresa, la manifattura industriale, l’internazionalizzazione di nicchia di alcune filiere di produzioni di beni e servizi ad alto valore aggiunto.

Ma è proprio in questi segmenti che si stanno riscontrando i primi segni di una debole ripresa: le piccole imprese, ibridandosi fra loro e facendo rete – specie nel settore manifatturiero – stanno migliorando il loro potenziale; queste aziende sono definite dal Censis “artigianato digitale” e stanno conducendo il Paese verso un nuovo e diverso modello di sviluppo.

 

L’export

In Italia la dinamica positiva delle piccole imprese si va saldando con l’accresciuta propensione all’export di quelle medie e grandi e, appoggiandosi sull’economia dell’innovazione e della conoscenza, sta migliorando la domanda interna. Infatti, già a partire dal 2012, il saldo commerciale di beni e servizi dell’Italia verso il mondo è tornato attivo ed è aumentato progressivamente fino a superare i 45 miliardi di euro nel 2014 e i 41 miliardi nel 2015. Il miglioramento è attribuibile in parte alla diminuzione del deficit di prodotti energetici, ma anche all’avanzamento dell’interscambio manifatturiero che è aumentato gradualmente negli ultimi anni passando dai 53 miliardi di euro del 2007 ai 94 miliardi dello scorso anno, una quota pari al 6,1% del Pil.

In Italia il rapporto tra esportazioni di beni e servizi e Pil tra il 2011 e il 2015 è passato dal 26,3% al 30,4% evidenziando la tenuta delle esportazioni del nostro Paese in un periodo di crescita contenuta del commercio mondiale.

 

Produttività e occupazione

Altro punto della discussione la connessione tra produttività ed occupazione.

Portando il confronto con la Germania, il reddito pro-capite è cresciuto tra il 1995 e il 2015 del 29,3% contro il 2,8% dell’Italia; questo dimostra che la differenza macroscopica non sta nel Pil per occupato (dove i valori sono analoghi: 66.800 euro in Italia, 70.300 euro in Germania nel 2015) bensì nella capacità tedesca di includere meglio nel mercato del lavoro anche addetti con un basso livello di produttività (immigrati, giovani, lavoratori in uscita dai processi di ristrutturazione industriale). Nei Paesi in cui è aumentata la produttività (prodotto per occupato), l’economia è cresciuta e la crescita ha compensato l’effetto di composizione generato dall’assorbimento di lavoratori a più bassa produttività. Nei Paesi come l’Italia in cui invece si è avuta una riduzione delle attività economiche, si registra anche uno stallo della produttività (prodotto per addetto), questo perché sono state inglobate quote di lavoratori marginali pressati dalle condizioni sociali senza poter aumentare l’occupazione complessiva.

La crescita della produzione, e quindi della domanda, favorisce la crescita della produttività.

 

Il modello di sviluppo italiano

Infine Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, ha ricordato con una logica “continuista” i tre percorsi su cui si è costruito il modello di sviluppo italiano dagli anni ’70 in poi: il primo è collegato alla dinamica spontanea delle piccole imprese: il loro sviluppo e quello del tessuto imprenditoriale italiano non va verso il primato delle grandi dimensioni, ma verso la loro progressiva inserzione in una logica di filiera (settoriale o di prodotto). “Se si vuole ottenere la progressiva vitalità del sistema d’impresa, la strada è obbligata: bisogna privilegiare la logica e la logistica della filiera e bisogna incentivare i comportamenti delle imprese a starci dentro” ha affermato De Rita.

Il secondo grande processo è quello dell’esplosione del ceto medio, la così detta “cetomedizzazione”. De Rita sostiene che di fatto questo processo, iniziato negli anni ’70, ha ormai esaurito la sua forza di spinta e tenerlo come riferimento del futuro risulta inutile e contro producente. Occorre invece guardare ai piccoli imprenditori che vanno in filiera, agli imprenditori medi che vanno verso un’assunzione di responsabilità collettiva, ai giovani di medio-alta cultura che studiano e lavorano all’estero e ai tanti che fanno impresa sulla conoscenza (dagli artigiani digitali a coloro che sfruttano brevetti e licenze).

Il terzo ed ultimo processo di sviluppo è legato alla centralità della famiglia, nelle sue diverse declinazioni. Oggi “la famiglia non è più il grande soggetto che regola indirettamente le dinamiche economiche, ma sempre più il grande e responsabile soggetto di welfare, cioè un soggetto che spende di suo nei diversi campi del sociale, dalla sanità all’assistenza, agli anziani, dalla scuola alla previdenza” ha affermato De Rita che in conclusione ha esortato l’attuale governo a pensare ad interventi articolati e specifici in materia di natalità, di studi avanzati e di consumi culturali alti.

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