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Pensioni femminili: scontro tra sindacati e Governo

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La disparità di genere si fa sentire anche in campo pensionistico. L’età per accedere alle pensioni femminili è la più alta d’Europa e il Governo italiano la sta innalzando sempre più. Uno sconto sull’Ape sociale non è sufficiente a pareggiare i conti

Nella maggior parte dei Paesi europei l’età per le pensioni femminili di vecchiaia è fissata intorno ai 65 anni. La Danimarca e la Francia aumenteranno a 67 anni ma non prima del 2022, la Spagna non prima del 2027, La Gran Bretagna nel 2028, la Germania nel 2030 e la Croazia addirittura nel 2038. L’Austria invece non ha ancora raggiunto nemmeno i 65 anni, per le pensioni femminili, e lo farà solo nel 2033. E l’Italia? L’Italia da subito: dal gennaio 2018, cioè fra appena 3 mesi, e a 66 anni e 7 mesi, le pensioni femminili come quelle maschili, mentre dal 2019 aumenterà immediatamente almeno a 67 anni. L’età pensionabile, già da gennaio 2018, sarà dunque la più alta d’Europa.

Il motivo è da riscontrarsi in un ragionamento puramente economico collegato a uno… sanitario. L’Italia è il secondo Paese più longevo al mondo. Si vive di più e dunque per lo Stato sarebbe un problema pagare la pensione per tutti gli anni che vanno dall’andata in pensione alla morte del pensionato. Un discorso economico piuttosto cinico ma tant’è.

Pensioni femminili e maschili: quale uguaglianza?

Ma è giusto per le donne andare in pensione alla stessa età degli uomini? Secondo il ragionamento della Pubblica Amministrazione altroché, anzi: visto che le donne vivono più degli uomini sarebbe il caso di mandarle in pensione ancora più tardi di loro, così si farebbero maggiori risparmi di cassa. Da un punto di vista sociale e di giustizia, invece, la risposta è no, assolutamente no. L’equiparazione tra i due generi non può essere rappresentata da una stessa età di pensionamento per donne e uomini, semplicemente perché donne e uomini non sono uguali, né fisicamente né psicologicamente. E perché le donne lavorano di più, dovendo aggiungere il lavoro di cura della famiglia e della casa, di messa al mondo e crescita dei figli, di cura di parenti anziani o malati. In quanto – diciamolo chiaramente – sono solo le donne, “grazie” alla tradizione italiana, a fare questo tipo di lavoro. Un doppio lavoro.
Così, se ad esempio l’uomo il sabato e la domenica si diverte a guardare gli eventi sportivi e a disquisire con gli amici sull’ultimo rigore che non c’era (per loro non c’è mai), basta uscire per le strade e vedere le donne affannarsi tra mercato e negozi cariche di buste della spesa e correre a cucinare per il pranzo della domenica; mentre se si entrasse nelle case sarebbe facile vederle affaccendate nelle pulizie della casa o mentre lavano e stirano i vestiti di tutta la famiglia. Ma per carità: quelli sono considerati per loro solo giorni di riposo settimanali!

Sono i sindacati a cercare di far valere le ragioni delle donne, chiedendo al Governo di eliminare la disparità di genere tenendo conto della maternità e del lavoro di cura prestato dalle lavoratrici. Il segretario confederale UIL Domenico Proietti lo ribadisce: “l’Italia è la maglia nera in Europa per l’accesso alla pensione di vecchiaia e le donne sono ancora più penalizzate. Bisogna disporre una serie di interventi che introducano maggiore flessibilità in uscita per tutti ed eliminino le disparità di genere che stanno penalizzando le donne”.

Dello stesso parere il Segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli che spiega come la carriera lavorativa delle donne sia molto penalizzata rispetto a quella degli uomini: “è fondamentale che si trovino strumenti che riconoscano questa differenza. Credo che vada riconosciuto il lavoro di cura come ad esempio nel caso della presenza in famiglia di una persona disabile e che si debba tenere conto dei figli avuti. Queste situazioni vanno riconosciute dal punto di vista previdenziale. È largamente insufficiente invece l’ipotesi circolata di uno sconto per l’accesso all’APE sociale di due anni sui contributi necessari”.
Secondo l’ipotesi del Governo infatti per accedere all’APE sociale alle donne disoccupate basterebbero 28 anni di servizio invece di 30 mentre per le donne che sono state impegnate in attività gravose ci vorrebbero 34 anni invece di 36.

APE Sociale

L’Ape Sociale è una misura sperimentale varata il 1° maggio di quest’anno e che durerà fino al 31 dicembre 2018, che prevede il conferimento di un’indennità (a carico dello Stato ed erogata dall’Inps) a chi abbia compiuto almeno 63 anni di età, abbia un certo numero di anni di servizio (appunto 30 o 36) e non sia titolare di pensione (né in Italia né all’estero). Servirebbe per accompagnare gradualmente lavoratrici e lavoratori in particolari condizioni di difficoltà fino al conseguimento della pensione di vecchiaia. Spetta ai disoccupati, a chi assiste il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave, agli invalidi civili almeno al 74%, a chi svolge attività lavorative particolarmente impegnative (camionisti, facchini, operatori ecologici, maestre d’asilo, infermiere, ostetriche, assistenti di persone non autosufficienti, ecc.). Per saperne di più basta andare alla seguente pagina del sito Inps.

Secondo il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, per quanto concerne l’APE Sociale “c’è un numero di domande da parte delle donne significativamente più basso rispetto agli uomini, in ragione della carriera e dei versamenti previdenziali, quindi abbiamo ipotizzato fino due anni in meno per i requisiti contributivi previsti dall’APE Sociale per le donne con figli”.
I dati indicano infatti che le domande di Ape Sociale presentate dalle donne sono state circa un terzo di quelle presentate dagli uomini, pari a circa 11 mila. Con la proposta del governo le domande diverrebbero 4.000 in più.
Ma i sindacati ritengono la risposta insufficiente a pareggiare i conti della disparità tra donne e uomini. L’età per accedere alle pensioni femminili infatti non verrebbe modificata e l’impegno ad innalzarla resta.

Il punto di vista dei sindacati su Ape Sociale e pensioni femminili

“È una risposta parziale ai bisogni delle donne” dichiara Annamaria Furlan, Segretaria generale della Cisl. “Noi abbiamo bisogno di due tipi di intervento: da una parte di riconoscere a livello universale il valore sociale ed economico della maternità per tutte le donne che hanno figli; dall’altra prevedere una contribuzione figurativa anche per chi – uomo o donna – si dedica al lavoro di cura e di assistenza di un familiare.”
Per quanto concerne le pensioni femminili insomma secondo la Cisl serve una risposta molto più forte di quella presentata dal Governo, “che è dignitosa ma parziale”. Infatti l’allargamento del numero delle donne che possono ricorrere all’Ape sociale non basta perché “il tema riguarda tutte le donne lavoratrici”.

Dello stesso avviso Susanna Camusso, Segretaria generale Cgil, la quale ha sottolineato anche la mancanza di indicazioni sulle risorse che il Governo intende mettere in campo per le modifiche all’Ape sociale che ha proposto. Oltre alla mancata considerazione del lavoro di cura svolto dalle donne. “La proposta del Governo di considerare la maternità per le donne che accedono all’Ape sociale significa non occuparsi di tutte quelle lavoratrici che hanno rinunciato alla carriera per occuparsi di familiari malati o anziani. Ci vogliono risposte non su singoli casi specifici ma norme di carattere universale.”
Secondo Susanna Camusso il Governo mostra “molte incertezze e nessuno slancio per il cambiamento del sistema previdenziale”.

Anche il Segretario generale della UIL, Carmelo Barbagallo, ha notato come il Ministro Poletti non abbia fatto alcun riferimento ad eventuali stanziamenti ed ha giudicato solo minimale l’allargamento dell’Ape Sociale a una platea più ampia di donne. Sull’allungamento dell’età pensionabile ha annunciato che se non ci saranno interventi da parte del Governo “certamente i sindacati non staranno a guardare”.

I sindacati infatti hanno intenzione di fare una proposta sul lavoro di cura svolto dalle donne, che va considerato per quanto concerne il raggiungimento dell’età pensionabile. Non si può insomma parlare di pensioni femminili senza considerare tutti i lavori svolti in contemporanea dalle donne. Secondo i sindacati il Governo tace anche con la scusa di dover attendere i dati Istat sulle aspettative di vita da collegare all’età pensionabile. L’idea che cova potrebbe essere quindi quella di aumentarla ulteriormente a partire dal 2019. Come a dire: meglio morire prima o vivere più a lungo in povertà?

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