Diritti Lavoro

Mobbing: più informazione crea consapevolezza

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I contenuti del seminario “Il mobbing nel lavoro e nella vita familiare” tenuto dalle avvocate dell’associazione Codice Donna

L’informazione crea cultura e consapevolezza. Questa è la base di partenza del seminario dal titolo “Il mobbing nel lavoro e nella vita familiare” tenutosi il 30 novembre a Roma organizzato dall’Associazione Codice Donna. Il tema è stato affrontato dalle avvocate Vittoria Mezzina, esperta di diritto del lavoro, Teresa Manente, penalista ed esperta nella difesa dei diritti delle vittime di violenza di genere, dalla presidente dell’associazione Codice Donna, Simona Napolitani, avvocata esperta di diritto di famiglia, e dalla docente Gabriella Maugeri psicologia delle relazioni familiari.

Codice Donna, che dal 1998 offre consulenza legale alle donne e ritiene che la divulgazione dei fenomeni sociali e familiari sia utile affinché le vittime di comportamenti discriminanti possano riconoscerli e combatterli, ha voluto questo incontro con le proprie professioniste per illustrare il tema sotto vari aspetti: all’interno dei luoghi di lavoro e della famiglia, commentando situazioni in cui per effetto della gerarchia all’interno del posto di lavoro, si innesca un rapporto di manipolazione, invasione, coazione, che mette in pericolo la vita della donna che lo subisce.

Simona Napolitani durante l’incontro ha spiegato che la comunicazione serve per far circolare un sapere e far uscire le donne da situazioni disagiate che lasciano ferite indelebili, per fare cultura sulla genitorialità o per chi si trova a svolgere un ruolo all’interno della famiglia.

Lo stesso seminario – ha evidenziato Vittoria Mezzina – è stato sollecitato dalle continue richieste di aiuto di donne, aiuto sia dal lato legale sia da quello psicologico. Per interpretare il fenomeno, secondo l’esperta di diritto del lavoro, occorre partire dalla definizione di mobbing. Questo verbo inglese, to mob, significa attaccare/assalire e descrive il comportamento di alcune specie animali che vengono “accerchiate” da un membro del gruppo per allontanarlo. Ebbene proprio questi comportamenti sono quelli attuati sul posto di lavoro, e oggi possono acquisire una rilevanza giuridica. “Nel nostro ordinamento” ha spiegato Mezzina “non esiste una legge specifica anti mobbing ma una serie di definizioni elaborate dalla psicologia del lavoro, condivise dalla giurisprudenza e dalla cassazione. La spiegazione più ricorrente di mobbing è stata catalogata come ‘un insieme di condotte vessatorie reiterate e durature, individuali e collettive, rivolte nei confronti di un lavoratore o lavoratrice ad opera di superiori gerarchici a sottoposti di pari livello che rivestono posizioni apicali’. In altri casi si tratta di una strategia volta all’estromissione del lavoratore dal posto di lavoro, si pensi alle molestie sessuali che restano in assoluto silenzio, denunciando l’accaduto solo in sede penale. Il fenomeno ha molte sfaccettature, spesso difficili da dimostrare in un contenzioso e per comprenderne la gravità occorre rifarsi ad una serie di casistiche categorizzate da esperti di psicologia del lavoro e condivise dall’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro)”.

Mobbing al lavoro: ridicolizzare ed escludere

La letteratura delinea i fenomeni di mobbing come vessazioni, comportamenti offensivi di un superiore gerarchico volti a ledere l’immagine della persona attraverso forme di ridicolizzazioni con l’esercizio del potere disciplinare facendo notare che il lavoro svolto non è corretto. Da qui l’isolamento e l’esclusione dal gruppo di lavoro.

L’esclusione è la modalità più utilizzata da un superiore che decide di non attribuire mansioni o lasciare la persona in una condizione di totale inattività. L’inattività è la forma più grave di mobbing, che fa configurare, in termini giuridici, l’inadempimento contrattuale e il dimensionamento.

Il mobbing, oltre a concentrare tutte queste condotte, mira all’accanimento e alla vessazione per colpire il lavoratore o la lavoratrice, i quali spesso non denunciano l’accaduto.

Il peso del mobbing sulla famiglia

La segregazione, oltre ad essere orizzontale e verticale, è anche trasversale perché incide sulla vita familiare e può portare a una separazione/divorzio e alla rottura con i figli. Le persone vittime di mobbing che hanno conseguenti problemi in famiglia, secondo l’avvocata oltre ad un legale hanno bisogno di un supporto psicologico, di seguire percorsi mirati in centri anti mobbing per acquisire consapevolezza delle difficoltà e di reagire, raccogliendo tutti gli elementi per istituire un contenzioso e richiedere il risarcimento del danno.

Il risarcimento del danno da mobbing

Il risarcimento del danno – sostiene Simona Napolitani – non restituisce a chi ha subito una violazione la propria integrità. La giurisprudenza offre questa possibilità a chi ha subito maltrattamenti (lesione dei diritti alla persona, della salute, della libertà) ed è l’unico strumento approvato per riparare, non per prevenire.
La prevenzione e la comunicazione invece servirebbero per creare consapevolezza e stabilire le condizioni per riconoscere i fenomeni patologici nell’ambito del lavoro e della famiglia.
“Occorre conoscere il limite di demarcazione tra il principio di autodeterminazione delle donne e il diritto di libertà altrui” ha dichiarato Napolitani. “La violenza sulle donne può essere fatta alzando muri, non c’è bisogno dell’acido, dei pugni, degli schiaffi o delle parolacce. Gli uomini possono distruggere una donna con il silenzio, con la viltà, con l’indifferenza. Fa paura l’autostima della donna, la percezione di sentirsi considerata, l’intelligenza e la sua sensibilità, tutte forme di violenza che mietono vittime”.
È bene sottolineare che molte donne riescono a riallacciare rapporti e ricostituire situazioni sane in famiglia e che la giurisprudenza riconosce i principi del mobbing applicandoli alle relazioni familiari – ha concluso l’esperta di diritto del lavoro.

La psicologia familiare per le vittime di mobbing

Gabriella Maugeri, docente e psicologa delle relazioni familiari, ha sostenuto che il rapporto tra mobbing e famiglia è duplice. Esiste infatti anche il mobbing all’interno della famiglia stessa. Si tratta della costante svalutazione psicologica di un familiare messa in atto tramite comportamenti prepotenti, coercitivi e vessatori ed è finalizzata a minare la stabilità psicologica ed emotiva del familiare cui è destinato questo atteggiamento, solitamente la donna.
Due sono le condizioni che si rifanno ad una situazione di mobbing prima della separazione di coniugi: estromettere il coniuge dall’abitazione familiare; coinvolgere i figli per isolare la vittima. Queste dinamiche passano attraverso comportamenti attivi (attacchi, accuse, emarginazioni, tentativi di sminuire il ruolo dell’altro, provocazioni e pressioni) e comportamenti omissivi (esclusione, rifiuto al dialogo) che toccano la sfera della vita quotidiana (dal pasto alla sessualità). Molte di queste azioni restano celate per la vergogna, per timore di vendette e per la presenza dei figli che rappresentano un deterrente.
Questi stessi episodi, sottili e subdoli, se attuati sul posto di lavoro diventano riconoscibili per la presenza di colleghi che documentano le azioni. Tuttavia, secondo la psicologa, se i colleghi si alleano possono diventare responsabili persino del suicidio del lavoratore emarginato.
Il lavoro psicologico dunque è fondamentale, in quanto porta il soggetto a riflettere sugli aspetti collusivi che si strutturano nel tempo.

Aspetti che investono la persona a livello psicologico

1) Aspetto gerarchico – all’interno della famiglia tende a crearsi una gerarchia che vede l’uno in una posizione one up e l’altro in una posizione one down dove lo squilibrio di potere tende ad essere più ampio.

2) Lesione dell’immagine – squalifica e svalutazione (derisione, non considerazione) che avviene nel rapporto a due o in presenza di altre persone, spesso i figli.

3) Disconferma – da un punto di vista eziologico è una dinamica altamente patologica. La letteratura riporta casi in cui nei contesti familiari la disconferma è uno dei fattori che provocano gravi patologie. Rispetto ad altre modalità comunicative c’è l’interdizione dell’interlocutore: tu non esisti! Se ciò avviene in modo reiterato provoca un break down, una rottura. La modalità è trascurare il coniuge, non preoccuparsi di quello che prova, togliere valore ai suoi comportamenti e ai suoi sentimenti, non riconoscerne l’esistenza. La persona viene messa in una condizione psichica di perenne disagio generando in lei situazioni di angoscia, creando un vuoto per la privazione di coordinate relazionali. Qui intervengono le patologie psicosomatiche (cefalea, gastrite, disturbi alimentari e del sonno, disturbi nella sfera sessuale e di adattamento, patologie ansio-depressive, traumatici da stress e calo del tono dell’umore) che possono anche indurre la persona a gesti autolesionistici, oggi utilizzati in sede legale.

La difesa della donna

Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna, esperta nella difesa dei diritti della donna sulla violenza di genere, ha spiegato che queste situazioni dolorose sono fenomeni diffusi e in aumento. Il mobbing familiare – ha commentato la penalista – è un fenomeno che sta prendendo piede in situazioni in cui la donna è libera, economicamente autonoma e riveste alti ruoli sociali all’interno della famiglia. Il coniuge in questi casi adotta un esercizio di potere, e la disconferma viene spesso denunciata da donne che hanno raggiunto ruoli apicali.

Da circa dieci anni è stato riconosciuto in cassazione il reato di maltrattamento psicologico, che sino prima si configurava solo se era presente una violenza fisica. La Convenzione di Istanbul riconosce oggi, oltre al maltrattamento psicologico, anche la violenza economica. Le leggi ci sono, quello che manca è l’applicazione per il persistere di stereotipi radicati nella nostra cultura – ha concluso Manente.

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