Lavoro Sicurezza

Occupati non in lockdown e contagi

Gli occupati non in lockdown sono quelli che lavorano nei settori essenziali. Uno studio dell’Inps mostra come ci siano stati più contagiati da Covid-19 proprio dove ci sono più occupati attivi durante il lockdown

Uno studio della Direzione centrale studi e ricerche dimostra come i contagiati da Covid-19 siano aumentati in misura maggiore, dopo le misure decise dal governo, nelle province con più occupati non in lockdown, ovvero con più rapporti di lavoro nei settori essenziali

Gli occupati non in lockdown si ammalano di più
In base allo studio realizzato dall’Inps – visibile alla seguente pagina web: https://www.inps.it/docallegatiNP/Mig/Dati_analisi_bilanci/Studi_e_analisi/Nota_DCSR-INPS_Essenziali_COVID6.pdf – sembra proprio che le misure di lockdown abbiano limitato la diffusione del contagio, visto che l’effetto di contenimento del Covid-19 è minore nelle province dove le limitazioni erano meno stringenti a causa della maggiore quota di rapporti di lavoro essenziali, cioè di occupati non in lockdown.

I risultati dello studio
Lo studio ha analizzato i dati provinciali della Protezione civile sulla dinamica dei contagiati Covid-19 dal 24 febbraio al 21 aprile incrociandoli con i dati amministrativi Inps relativi alla quota dei rapporti di lavoro nei settori considerati essenziali dai due provvedimenti restrittivi del marzo 2020.
Dall’analisi è emerso che, se nel primo periodo la curva del contagio è cresciuta nello stesso modo fra le province, dal 22 marzo (quando è stato emanato il provvedimento più restrittivo di lockdown) il contagio è iniziato a crescere di maggiormente nelle province con più rapporti di lavoro nei settori essenziali rispetto a quelle dove tali settori sono meno rappresentati. Inoltre in queste province dopo aver toccato il picco all’inizio di aprile, la curva è scesa più lentamente. Ciò significa che in quelle province il numero generale dei contagiati sta diminuendo più lentamente.

I contagi degli occupati non in lockdown
Negli ultimi giorni considerati, lo studio mostra come nei settori che si collocano sopra la fascia mediana dei settori essenziali (in cui è maggiore il numero dei lavori appartenenti ai settori essenziali e dunque dove vi sono più occupati non in lockdown), ci sono in media 10 contagiati in più al giorno. Un numero non trascurabile, dato che la media provinciale giornaliera dei contagiati dopo il 22 marzo è di 37. Significa che la differenza è del 25% in più.
La differenza risulta ancora più marcata se si considera anche la densità di occupazione a livello provinciale. Infatti, aggiungendo questo elemento, emerge che l’impatto dell’esposizione a settori essenziali risulta essere ancora più elevato (13 contagiati in più al giorno contro 10). Significa che più questi occupati non in lockdown vengono a contatto con gli altri (trattandosi di province ad alta densità di popolazione) più il contagio viene trasmesso.

La distribuzione delle attività essenziali
Le attività essenziali non sono distribuite in maniera omogena sul territorio nazionale e pertanto in alcune province il numero di persone che sono venute in contatto, dopo il lockdown, tramite l’apertura delle attività essenziali è risultato più grande che in altre. Come spiegano gli analisti, ci si poteva aspettare che le misure di contenimento fossero meno efficaci dove l’economia è più attiva e lo studio dimostra che non solo tenere aperte le attività aumenta il rischio di diffusione del virus ma che tale aumento è più pronunciato quando le attività sono molto concentrate sul territorio provinciale.

Settori essenziali e non. La forza lavoro
In uno studio precedente, del 15 aprile 2020, l’Inps aveva analizzato i rapporti di lavoro (dati Uniemens) dei settori essenziali, quindi con occupati non in lockdown, contrapponendovi quelli dei settori bloccati per la crisi pandemica. Gli analisti hanno pertanto controllato i codici Ateco elencati nei due DPCM del 22 e del 25 marzo e li hanno confrontati con i rapporti di lavoro esistenti al 2018, risultato pari a 19.295.137 per 14.756.237 lavoratori e circa 1.626.724 imprese con almeno un addetto nell’anno. La quota di rapporti di lavoro inclusi nei settori essenziali ammonta al 49,9% e pertanto il rimanente 50,1% si riferisce ai settori bloccati, senza considerare le possibilità di smart working e di deroga. Se si va invece a considerare le imprese con almeno un addetto, le imprese essenziali risultano essere circa il 43% e le bloccate il 57%, suggerendo che le imprese nei settori essenziali sono mediamente più grandi (13 rapporti di lavoro l’anno contro i 10 dei settori bloccati).
Per quanto riguarda i lavoratori coinvolti (e non i rapporti di lavoro) nei settori essenziali ve ne sono il 51,5%, il 48,5% nei bloccati.

Gli occupati non in lockdown e quelli bloccati. Le caratteristiche
Per analizzare le differenze legate alla composizione della forza lavoro nei settori essenziali e bloccati, gli studiosi hanno considerato le seguenti caratteristiche individuali: genere, classi di età (giovane: fino a 30 anni, adulto: da 31 a 50 anni, anziano: sopra i 50 anni), professione (apprendista, operaio, impiegato, quadro/dirigente), tempo determinato, part time, ripartizione geografica (a 5, Nord Est, Nord Ovest, Isole, Centro, Sud).
La distribuzione per genere fra i settori essenziali e bloccati è omogenea, così come la distribuzione per ripartizione geografica, dove sono presenti differenze poco rilevanti. Emergono invece differenze significative per quanto riguarda la distribuzione per età. La categoria dei giovani è fortemente sovrarappresentata nei settori bloccati (32% vs 21%), mentre la categoria adulti e soprattutto anziani è sovrarappresentata nei settori essenziali.
Per quanto riguarda la professione, l’incidenza degli operai (64% vs 53%) e degli apprendisti (7% vs 5%) è decisamente superiore nei settori bloccati e viceversa per gli impiegati e quadri/dirigenti. Nei settori bloccati vi è anche una marcata sovrarappresentazione dei contratti a tempo determinato (39% vs 27%), del part time (37% vs 31%) e dei lavoratori stranieri (18% vs 14%).

Stipendi e salari degli occupati non in lockdown e di quelli bloccati
I salari medi annuali per i settori bloccati ammontano a 13.716 euro, mentre per i settori essenziali a 18.229 euro, circa il 32% in più.
Se si considerano i salari settimanali (convertiti in full time equivalent per i part time) le differenze rimangono sostanziali, anche se più contenute: i salari settimanali medi risultano essere nei settori essenziali il 15% più elevati di quelli dei settori bloccati (512 vs. 445).
Per spiegare le differenze osservate fra i salari totali e quelli settimanali bisogna considerare le settimane lavorate, che mostrano una elevata instabilità lavorativa nei settori bloccati rispetto ai settori essenziali, con un numero di settimane lavorate decisamente inferiore (26 vs. 32).
In generale ci sono dunque differenze nel reddito da lavoro a sfavore dei settori bloccati. E questo dimostra in modo evidente che i lavoratori impiegati nei settori bloccati appartengono alle categorie più deboli della forza lavoro, con salari totali e settimanali e settimane lavorate inferiori, quindi con carriere più frammentate, con una maggiore incidenza di contratti a tempo determinato e part time e con una maggiore presenza di giovani.

Disuguaglianze e nuove povertà
Il risultato evidenziato dagli analisti li ha portati a concludere che l’ipotesi che la crisi pandemica in atto colpirà più duramente i lavoratori nei settori bloccati potrà implicare un ulteriore peggioramento delle dinamiche di disuguaglianza, di povertà sul posto di lavoro (working poor) e di instabilità lavorativa.

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