Sociale Società

55 Rapporto Censis sulla situazione sociale

La situazione sociale italiana allo stato attuale fotografata dal Censis mostra il desiderio di una ripresa guidata da un programma reale, l’adattamento non basta più

Serve un progetto unitario frutto del lavoro di autocoscienza individuale e collettiva, affermano gli analisti nel commentare i dati del Rapporto sulla situazione sociale. La società italiana ha attraversato troppe crisi ed oggi è fortemente mutata, ci dicono i dati del 55imo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Stanchi di affrontarle di volta in volta con spirito di adattamento, ora gli italiani non intendono più farsi guidare dalle crisi ma esigono un cronoprogramma serio per lo sviluppo dell’italia, per la transizione green, digitale, demografica e occupazionale.

La situazione sociale? in stallo
La ripresa dello sviluppo è la prima strutturale richiesta che la società esprime in termini di progetto unitario. Basti guardare l’enfasi posta in questi mesi sul superamento delle più favorevoli ipotesi di crescita del Pil, la sopravvalutazione del ciclo di rimbalzo dei consumi interni, la fiducia posta nella capacità dei soggetti e dei fondi pubblici di annientare gli effetti della crisi. Tutti segnali che indicano un’aspirazione collettiva e condivisa di risalita, se non di ricostruzione. Lo si legge nella nota degli analisti del Censis che commentano i dati emersi dall’indagine. La pandemia, rimescolando le carte, ha costretto il Paese a porsi di fronte alle opportunità dell’accelerazione negli investimenti pubblici e privati. È il tempo delle riforme strutturali e dei grandi eventi internazionali da preparare e ospitare in Italia. È il tempo dell’intervento pubblico, orientato da scelte coraggiose.

Per attuare le transizioni non basta parlarne
Riempirsi la bocca con belle parole tipo transizione green, transizione green, ecc. non è sufficiente. Bisogna agire. La transizione green, ossia la necessità di ridurre l’impronta ecologica delle attività umane per salvaguardare l’ambiente delle generazioni future, è un processo sociale, economico, tecnologico, politico che richiede capacità di indirizzo e di disegno complessivo ben oltre quella messa in campo fin qui in Italia e in Europa. La transizione digitale è il simbolo della sfida tecnologica e dell’innovazione delle grandi società globali che oggi prova a integrare obiettivi di contrasto ai cambiamenti climatici e obiettivi d’inclusione dei più fragili nelle società avanzate. La transizione del lavoro, il riposizionamento delle competenze in uno scenario produttivo e dei servizi radicalmente mutato, però, sfugge ancora alla sensibilità dell’opinione corrente. Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, la dispersione di opportunità per mancanza o inadeguatezza delle competenze necessarie in questa nuova fase di ripartenza, non è un tema nuovo, ma oggi è al centro di un rinnovato bisogno collettivo.

La situazione sociale italiana al 2021
A causa di una comunicazione iniziale errata, che ora non si riesce più a recuperare, gli italiani hanno le idee confuse sulla pandemia: per 3 milioni di italiani il Covid non esiste, per più di un italiano su 10 il vaccino è inutile. E da qui al resto il passo è breve: il 5,8% degli italiani è convinto che la terra sia piatta! Tornando a oscuri periodi storici, i secoli bui del Medio Evo dove le convinzioni erano dettate da tutto fuorché la scienza. E poi c’è tutto il “comparto” da film di fantascienza di serie B, tipo quelli che sono convinti che il 5G sia stato fatto dal governo per controllare le persone. Il motivo? Secondo gli analisti del Censis questa regressione delle conoscenze è la spia di un sentimento profondo, da psicanalisi: le aspettative soggettive tradite provocano la fuga nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà. Insomma accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità, una disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. “L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti di protesta che quest’anno hanno infiammato le piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei
social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive”.

Voglia di vendetta
L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società – spiegano gli analisti – non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche. Ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale. La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali. Infatti, l’81% degli italiani ritiene che oggi è molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio. Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento. Per due terzi (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso. Per il 51,2%, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato.

Il PIL italiano e la situazione sociale
Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020. Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. L’82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.
Solo il 15,2% degli italiani ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà. La ricchezza complessiva delle famiglie è pari a 9.939 miliardi di euro. Il patrimonio in beni reali ammonta a 6.100 miliardi (il 61,4% del totale), depositi e strumenti finanziari valgono 4.806 miliardi (al netto delle passività finanziarie, pari a 967 miliardi, corrispondono al 38,6% della ricchezza totale). Ma nell’ultimo decennio (2010-2020) il conto patrimoniale degli italiani si è ridotto del 5,3% in termini reali, come esito della caduta del valore dei beni reali (-17,0%), non compensata dalla crescita delle attività finanziarie (+16,2%). Gli ultimi dieci anni segnano quindi una netta discontinuità rispetto al passato: si è interrotta la corsa verso l’alto delle attività reali che proseguiva spedita dagli anni ’80. La riduzione del patrimonio, esito della diminuzione del reddito lordo delle famiglie (-3,8% in termini reali nel decennio), mostra come si sia indebolita la capacità degli italiani di formare nuova ricchezza.

Il rialzo dei prezzi e la situazione sociale del Paese
Ci sono fattori di freno che congiurano contro la ripresa economica. Tutti i rischi di natura socio-economica che avevamo paventato durante la pandemia (il crollo dei consumi, la chiusura delle imprese, i fallimenti, i licenziamenti, la povertà diffusa) vengono oggi rimpiazzati dalla paura di non essere in grado di alimentare la ripresa, di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o in altri che si parano innanzi all’improvviso, tanto più insidiosi quanto più la nostra rincorsa si dimostrerà veloce. A cominciare dal rischio di una fiammata inflazionistica. A ottobre 2021 il rialzo dei prezzi alla produzione nell’industria è stato consistente: +20,4% su base annua. Si registra un +80,5% per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso, +4,5% per le costruzioni.

 

I consumi delle famiglie e la situazione sociale italiana
Il forte recupero dei consumi delle famiglie (+14,4% tra il secondo trimestre del 2020 e il secondo del 2021) è figlio dell’allentamento delle misure di contenimento del contagio. Si prevede una crescita dei consumi del 5,2% su base annua, inferiore alla crescita del Pil e inadeguata a ricollocare il Paese sui livelli di spesa delle famiglie del 2019. In Italia il tasso medio annuo di crescita reale dei consumi si è progressivamente ridotto nel tempo, passando dal +3,9% degli anni ’70 al +2,5% degli anni ’80, al +1,7% degli anni ’90. Nel primo decennio del nuovo millennio si è attestato su un +0,2% e poi l’anno della pandemia ha trascinato in negativo la media decennale: -1,2%.

La situazione sociale? Dicono che è in atto un complotto contro il lavoro
L’importanza della cultura, della conoscenza, della competenza non viene riconosciuta: gli italiani non studiano, non si formano, non capiscono che devono aumentare le proprie competenze, così è più facile dare la colpa ai datori di lavoro e addirittura all’ennesimo complotto, stavolta quello “contro il lavoro”. La realtà è che quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media. Sono 6,5 milioni nella classe di età 15-64 anni, di cui 500.000 non hanno titoli di studio o al massimo hanno conseguito la licenza elementare. Anche tra i poco meno di 5 milioni di occupati di 15-34 anni, quasi un milione ha conseguito al massimo la licenza media (il 19,2% del totale), 2.659.000 hanno un diploma (54,2%) e 1.304.000 sono laureati (26,6%). Considerando gli occupati con una età di 15-64 anni, la quota dei diplomati scende al 46,7% e quella dei laureati al 24,0%. Un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano. L’83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo. L’80,8% degli italiani (soprattutto i giovani: l’87,4%) non riconosce una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato. Per questo l’Italia affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane su cui fare leva.

Situazione sociale del Paese. Come la pensano i giovani
La percezione che i gangli del potere decisionale siano in mano alle fasce anziane della popolazione è molto forte tra i giovani: è quanto emerge da un’indagine del Censis. Il 74,1% dei giovani di 18-34 anni ritiene che ci siano troppi anziani a occupare posizioni di potere nell’economia, nella società e nei media, enfatizzando una opinione comunque ampiamente condivisa da tutta la popolazione (65,8%). Il 54,3% dei 18-34enni (a fronte del 32,8% della popolazione complessiva) ritiene che si spendano troppe risorse pubbliche per gli anziani anziché per i giovani. La precarietà lavorativa sperimentata nei percorsi di vita individuali influenza il clima di fiducia verso lo Stato e le istituzioni. Il 58% della popolazione italiana tende a non fidarsi del governo, ma tra i giovani adulti la percentuale sale al 66%. I Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, non si formano né cercano lavoro, costituiscono una eclatante fragilità sociale del nostro Paese. Tra tutti gli Stati europei, l’Italia presenta il dato più elevato, che negli anni continua a aumentare. Nel 2020 erano 2,7 milioni, pari al 29,3% del totale della classe di età 20-34 anni: +5,1% rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, quasi il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro (24,9%) o nel Nord (19,9%).

Situazione sociale e lavorativa delle donne in Italia
Concludiamo questo sunto del Report sulla situazione sociale del Paese con i dati relativi al lavoro femminile. A giugno 2021, nonostante il rimbalzo dell’economia del primo semestre, le donne occupate hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano 9.869.000. Durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%. Da questo punto di vista, l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso di attività femminile è pari all’80,3%, e siamo distanti anche da Grecia e Romania, che con il 59,3% ci precedono immediatamente nella graduatoria. La pandemia ha comportato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per le donne che si sono trovate a dover gestire in casa il doppio carico figli-lavoro. Il 52,9% delle donne occupate dichiara che durante l’emergenza sanitaria si è dovuto sobbarcare un carico aggiuntivo di stress, fatica e impegno nel lavoro e nella vita familiare, per il 39,1% la situazione è rimasta la stessa del periodo pre-Covid e solo per l’8,1% è migliorata. Tra gli occupati uomini, invece, nel 39,3% dei casi stress e fatica sono peggiorati, nel 44,9% sono rimasti gli stessi e nel 15,9% sono migliorati.

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