Lavoro Pari opportunità

Rapporto sulle politiche di genere 2021

Pubblicato dall’INAPP il Gender Policies Report, il rapporto sulle politiche di genere 2021, focus sull’imprenditoria e il lavoro femminile

I risultati dell’analisi INAPP (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) mostrati nel Rapporto sulle politiche di genere 2021 evidenziano come questo anno abbia rappresentato per le lavoratrici e le imprenditrici, una “svolta mancata”. Infatti per una donna su due la ripresa è precaria e a tempo parziale e, nonostante l’attenzione alla parità di genere decantata nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), in realtà la ripresa non sta favorendo le donne, che continuano ad avere contratti precari, orari ridotti e il peso della gestione dei carichi familiari.

La “ripresa” per le donne fotografata nel Rapporto sulle politiche di genere 2021
La ripresa della post pandemia è all’insegna della precarietà e della discontinuità occupazionale per le donne: sono a tempo indeterminato solo il 14% dei nuovi contratti e solo il 38% delle stabilizzazioni da altre forme contrattuali. Il 49,6% di tutti i contratti femminili, inoltre, è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini. Questa la fotografia della ripresa nel 2021 scattata con il Gender Policies Report (rapporto sulle politiche di genere 2021), elaborato dalla struttura Mercato del lavoro dell’INAPP e presentato il 20 dicembre all’Auditorium dell’Istituto. Il Rapporto, diviso in 9 capitoli, spazia dal contesto demografico al mercato del lavoro, per concentrarsi su un’analisi delle principali politiche innovative in ottica di genere (PNRR e gender procurement) e del sistema di relazioni industriali in prospettiva di genere.

Prof. Fadda, presidente Inapp

I dati sulle disuguaglianze di genere
Andando ad esaminare il Rapporto sulle politiche di genere 2021 si evidenzia come nel primo semestre del 2021 (ma la tendenza è in atto anche per i mesi successivi) i nuovi contratti attivati sono 3.322.634 di cui 2.006.617 a uomini e 1.316.017 (il 39,6% del totale) a donne. Il 35,5% sono rivolti ad under 30, mentre oltre il 45% si colloca tra i 30 e i 50 anni senza rilevanti differenze di genere. Prevalgono per entrambi le forme contrattuali a termine, ma l’incidenza della precarietà e discontinuità per le donne è maggiore, con un ruolo prevalente della piccola impresa fino a 15 dipendenti. “In questo anno e mezzo di pandemia le donne hanno dovuto affrontare uno stress test particolare dovendo moltiplicare gli sforzi e spesso trovandosi di fronte al bivio di scegliere tra lavoro e famiglia” ha spiegato il prof. Sebastiano Fadda, presidente dell’INAPP. “L’aumento delle diseguaglianze di genere è cresciuto e parte da un dato strutturale dell’occupazione che vede al 67,8% il tasso di occupazione degli uomini e al 49,5% quello delle donne. È chiaro che la pandemia non ha fatto che allargare questo divario, per questo occorre intervenire non tanto con bonus o iniziative spot ma iniziando a adottare, sin dalla fase di progettazione, una valutazione di quali possono essere gli effetti su uomini e donne di politiche concepite come universali e quindi neutre. Un metodo e una sfida che l’Europa ci chiede dal 2006 e che di recente ha ribadito lo stesso Parlamento europeo nella Risoluzione sul Next Generation EU. Purtroppo, la questione della scarsa quantità e qualità dell’occupazione femminile nel nostro Paese continua ad essere percepita come una questione di parte: la questione non è solo di pari opportunità di genere, ma di sviluppo economico di un Paese che continua a lasciare in panchina metà della sua formazione vincente”.

Il Rapporto sulle politiche di genere 2021 mostra un Paese a 4 velocità
Si ampliano quindi i gap di genere e si acuiscono i divari territoriali: sono 4 i diversi scenari regionali per occupazione creata, livello di stabilità e numero di ore lavorate dalle donne. In tutte le regioni però un dato costante è questo: i contratti stipulati a donne sono sempre inferiori a quelli degli uomini. Le donne sono un terzo del totale in Basilicata, Sicilia e Calabria; sono sotto il 40% in Calabria, Molise, Puglia, Lombardia, Abruzzo e Lazio; in tutte le altre regioni si collocano tra il 41% e il 46,5%. L’incidenza più elevata viene registrata in Trentino Alto Adige.
Rispetto alla “quantità” di nuova occupazione creata, l’Italia presenta come anticipato 4 scenari diversi: con oltre 100.000 contratti a donne si collocano Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Veneto; dalle 50.000 alle 100.000 attivazioni Toscana, Piemonte, Campania, Puglia e Sicilia; dai 15.000 ai 99.000 contratti a donne troviamo Trentino Alto Adige, Marche, Sardegna, Liguria, Abruzzo, Friuli, Calabria e Umbria e al di sotto delle 15.000 attivazioni sono Basilicata, Valle d’Aosta e Molise. Ma – si legge nel Rapporto – se si associa questo dato alla percentuale di stabilità e alla quota di part time, si evidenzia che maggiore occupazione non sempre determina automaticamente maggiore stabilità o maggiore redditività. Per questo è importante guardare alla ripresa nelle sue reali potenzialità di sostenere una buona occupazione nel lungo periodo.

Valentina Cardinali, Inapp

Lavoro femminile, meglio al Sud che al Nord
Lo scenario fotografato dal Rapporto sulle politiche di genere 2021 conferma che l’occupazione sia trainata da forme di occupazione a termine e discontinue, in altre parole la precarietà la fa da padrone, soprattutto per quanto concerne il lavoro femminile. La sorpresa però sta nel fatto che le regioni del Mezzogiorno, pur a fronte di un numero di attivazioni al di sotto delle 80.000 unità, presentano un’incidenza di contratti a tempo indeterminato superiore alla media nazionale e superiore a quella di diverse regioni del Centro Nord. Meno contratti ma più stabili dunque. Un esempio è rappresentato dalla Campania, con oltre 75.000 contratti di cui il 21,4% a tempo indeterminato. O la Sicilia, con 59.230 contratti di cui il 17,7% a tempo indeterminato o, ancora, la Calabria, con 20.373 contratti di cui il 18% a tempo indeterminato. “Attenzione tuttavia a un dato che riduce l’ottimismo” concludono i ricercatori e le ricercatrici. “Proprio in queste regioni, accanto alla ridotta nuova occupazione continua a registrarsi la quota di tempo parziale femminile tra le più alte d’Italia”, fattore che rappresenta una delle cause dei già elevati differenziali retributivi tra uomini e donne.

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