Fisco e norme

Federalismo fiscale tra realtà e utopia

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Gli studi mostrano l’arretratezza dell’Italia in tema fiscale

Secondo la dottrina economica è molto difficile definire i confini effettivi del “federalismo fiscale” che si sostanzia nei seguenti punti:
Definizione degli strumenti con i quali i governi centrali e sub-centrali si procurano le risorse, in particolare di natura fiscale.
Definizione degli scopi per i quali tali risorse vengono spese.
Definizione dei rispettivi ruoli dei governi centrali e sub-centrali in questo processo.
Recenti studi provenienti da fonti internazionali, tra cui il più autorevole è quello dell’OCSE, sulla situazione delle autonomie fiscali centrali e locali nei principali Paesi industrializzati, già rilevano lo stato di arretratezza dell’Italia rispetto alla altre realtà considerate, sul primo dei tre punti prima elencati: quello dell’autonomia impositiva degli enti locali.

Su 30 paesi considerati, l’Italia si trova al 20° posto come rapporto tra gettiti tributari degli Enti territoriali sub-statali e gettiti tributari complessivi, con un indice di 13,5% a fronte del 30% di Germania e Spagna, il 41% della Svizzera e il 44% del Canada.

Questa fotografia che ci vede lontani dalle realtà di altre economie avanzate, insieme alla presa di coscienza dei profondi squilibri esistenti in Italia tra i vari territori in tema di efficienza ed efficacia della spesa pubblica, unitamente alla sensazione di un sempre minore senso di responsabilità degli amministratori locali, ha dato una spinta verso il cambiamento che è contenuto nella legge 42/2009 e nei decreti attuativi che hanno l’obiettivo di dare attuazione ai principi contenuti all’art. 119 della Costituzione, attraverso:
Il passaggio definitivo, dalle modalità di finanziamento basato sulla finanza derivata, verso l’attribuzione di una maggiore autonomia di entrata e di spesa dei governi territoriali, nel rispetto dei principi di solidarietà e coesione sociale.
Il passaggio dal sistema dei trasferimenti fondato sulla spesa storica, che perpetuava situazioni di inefficienza nella gestione delle risorse pubbliche, verso un finanziamento differenziato in base al servizio/funzioni da finanziare. Per le funzioni essenziali garantite costituzionalmente ( sanità, assistenza e istruzione ) è previsto un finanziamento completo dei fabbisogni finanziari, in base a dei livelli standard definiti per la qualità del servizio e in ipotesi di gestione efficiente delle risorse. Per le restanti funzioni il finanziamento non è completo ma basato sulla capacità fiscale di ciascun Ente.

Il passaggio dal vecchio al nuovo regime è previsto dalla Legge in cinque anni e comunque prevede l’introduzione di fondi perequativi transitori per far fronte a squilibri nelle dotazioni finanziarie dei singoli Enti.

Cosa cambia per le imprese?

Ad una prima analisi della riforma federale, guardando i suoi punti salienti, sembra che non ci sia nulla che debba far impensierire gli imprenditori, sembra cioè che sostanzialmente non debba cambiare nulla per loro; ma andando a leggere più a fondo emergono dei punti critici e con potenziali effetti sulle imprese, primo tra tutti  la discrezionalità che avranno gli enti locali nel decidere e manovrare alcune imposte.

Vediamo in sintesi cosa è contenuto nella riforma per le imprese.
Il decreto prevede la possibilità per ciascuna Regione di aumentare l’aliquota dell’addizionale base IRPEF, ora allo 0,9%,  con un incremento dello 0,5% nel 2013, dell’1,1% nel 2014 e del 2,1% nel 2015.
Questa disposizione concede la possibilità agli Enti di incrementare la pressione sulle micro, piccole e medie imprese, come confermato da uno studio di Confesercenti secondo il quale l’incremento delle imposte IRPEF per artigiani, commercianti e lavoratori autonomi potrebbe potenzialmente aumentare fino a 1.260 euro l’anno.

L’incremento IRPEF sarà possibile solo per quelle Regioni che ridurranno o addirittura elimineranno l’imposta IRAP, che attualmente è dovuta nella misura compresa tra il 2,9% e il 4,9%.
Tale imposta sulle Attività Produttive è sempre stata una delle imposte più contestate dalle imprese perché, essendo parametrata sui costi del personale, sugli oneri finanziari e sulle svalutazioni e le perdite sui crediti, piuttosto che sulla redditività dell’impresa, rischiava spesso di penalizzare ulteriormente imprese già in crisi o in forte difficoltà economica.
La possibilità invece che hanno ora le Regioni di arrivare fino a quadruplicare la base dell’addizionale sulle persone fisiche rischia di avere un forte impatto sulle piccole e medie imprese; infatti mentre l’IRAP colpiva tutte le imprese in base alla loro grandezza, al loro volume di affari, l’applicazione dell’addizionale IRPEF colpisce principalmente gli autonomi e le imprese medio-piccole che rappresentano in Italia la parte prevalente del tessuto produttivo.

Le addizionali IRPEF non sono però l’unico rischio di aumento della pressione fiscale per le imprese.
Maggiore preoccupazione viene dalla Imposta Municipale Unica, la famigerata IMU, che dal 2014 sostituirà l’Ici, l’Irpef e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari attinenti ai beni non locati, per la componente immobiliare.
La base imponibile dell’Imu sarà la stessa dell’Ici, ma la misura è fissata allo 0,76% contro una media attuale dell’ICI dello 0,64%, ed i comuni potranno variarla – diminuendola o aumentandola  sino allo 0,3%. Ed è qui che scatta il rischio del sovraccarico fiscale, anche perché i comuni hanno l’esigenza di recuperare i mancati introiti causati dalla manovra da 2,5 miliardi che Tremonti ha varato la scorsa estate e l’esperienza ci insegna che, quando le riduzioni sono facoltative e le variazioni sono possibili sia al rialzo che al ribasso, è molto più facile che i Comuni decidano di mettere in cassa qualche soldo in più, invece di ridurre il carico fiscale sulle imprese.
La base imponibile saranno tutti gli immobili, inclusi terreni e aree edificabili, diversi dall’abitazione principale e dalle sue pertinenze, quindi anche tutti gli immobili strumentali di proprietà delle imprese, siano esse persone fisiche o giuridiche.

A fare i conti in tasca alle imprese ci pensa la Cgia (Confartigianato ) che stima circa mezzo milione di euro di tasse in più a carico degli imprenditori.
In particolare, l’Associazione si sofferma sugli immobili strumentali di proprietà delle imprese e dei lavoratori autonomi e rivela che, rispetto al gettito prodotto dall’applicazione dell’ICI, l’IMU “provocherà” un aggravio della tassazione su questi immobili per un valore complessivo di 542 milioni di euro.
Un importo ripartito in 41,6 milioni di euro a carico di negozianti e bottegai; 50,8 milioni per i liberi professionisti; 449,5 milioni di euro tra industriali e artigiani.
Il risultato del passaggio ICI-IMU sarà con tutta probabilità uno spostamento del carico fiscale dai privati cittadini proprietari di casa alle imprese.

Alcune simulazioni realizzate dall’ufficio politiche fiscali della Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) che mettono a confronto il peso dell’Ici attuale in una serie di città e per un gruppo diverso di attività imprenditoriali con l’Imu calcolata allo 0,76%  mostra come l’attuazione del federalismo rischia di riservare alle imprese e ai negozianti italiani un notevole aggravio tributario.

L’aliquota di riferimento fissata dal decreto allo 0,76% supera del 18,75% la media raggiunta oggi dall’Ici; per i contribuenti Irpef, il problema non esiste perché l’imposta municipale assorbirà anche l’Irpef sui redditi fondiari, con il risultato che il passaggio dal vecchio al nuovo regime finisce per essere conveniente. Le imprese, però, non pagano questa Irpef, quindi il meccanismo compensativo non scatta e l’aumento medio del 18,75% è automatico.

Tradotto in cifre, l’impatto della nuova imposta varia di città in città, e di bene in bene, a seconda delle aliquote applicate oggi. Ad esempio,  per un laboratorio artigiano con una bottega del valore catastale di 142 mila euro l’aggravio tributario potrebbe essere di 85 euro a Napoli e di 370 a Milano. Allo stesso modo un industriale romano con un capannone che per il catasto vale 987 mila euro rischia di pagare 592 euro in più; mentre per un industriale  torinese il rincaro potrebbe essere di 1.579 euro.
Tale meccanismo aumenta le differenze nelle città che oggi hanno l’Ici più leggera: si può supporre che, dove i bilanci comunali lo permetteranno, anche l’Imu potrà scendere sotto il livello medio di riferimento fissato dal decreto, ma nulla toglie che la base di partenza si alza di quasi il 20% rispetto ai livelli attuali.
Non solo: l’autonomia fiscale riconosciuta ai sindaci permetterà loro di alzare fino al 10,6 per mille l’aliquota, ampliando enormemente le differenze rispetto al prelievo attuale calcolate poche righe sopra.

 

 

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