di Mariangela Giusti, Docente di pedagogia interculturale all’Università di Milano Bicocca
Il mondo del commercio (del business, degli affari) deve per forza dialogare con la società italiana multiculturale attuale e ancora di più con quella dei prossimi anni. Mi è capitato nelle ultime settimane di muovermi in giro per l’Italia col treno per andare in diverse città per fare incontri nelle scuole con insegnanti e educatori. Le sale d’attesa delle stazioni delle città piccole e grandi vedono la prevalenza di persone dai tratti palesemente lontani (africani, asiatici, indiani…). Il primo sabato di settembre (muovendomi coi treni, invitata al Festival “Mantova Letteratur” a presentare un mio libro) mi sono trovata in una stazione periferica intermedia. Tutti i treni erano in ritardo e le persone apparivano contrariate; nella piccola sala d’attesa, continuavano ad aggiungersi uommini, donne, ragazzi con bagagli piccoli e grandi, in un raggruppamento indistinto di mugugni e atteggiamenti di dissenso nei confronti delle ferrovie che non davano spiegazioni. A un certo punto sono entrate nella sala d’attesa due ragazze indiane (direi fra i 25 e i 30 anni), simili nei tratti del volto (forse cugine o sorelle) e nello stile.
Indossavano due abiti indiani tradizionali tipici, entrambi di color turchese: pantaloni lunghi e stretti alla gamba, abito diritto accollato, maniche all’avambraccio, leggerissimi ricami scintillanti sulla parte davanti, lungo al ginocchio con ambi spacchi laterali (da cui si vedevano i pantaloni, appunto!) e un velo lungo e leggero, appoggiato davanti all’altezza del petto, che scendeva dietro in due parti di uguale lunghezza, più o meno fino a metà gamba, che quando camminavano si muoveva leggero ondeggiando (in termini più precisi- non indispensabili al nostro ragionamento ma interessanti- si tratta del salwar kameez, l’abito tipico delle donne indiane del nord o del Punjab: una lunga casacca indossata sopra ai pantaloni con uno scialle abbinato). Una piccola apparizione, senza esagerare, nel colore marrone indistinto prevalente negli altri avventori. Hanno attraversato tutta la sala d’attesa con espressioni sorridenti e si sono andate a sedere su uno strapuntino della panca di marmo dove (non so come) sono riuscite a entrare tutte e due…Lezzerezza, bellezza, amicizia, solidarietà…tutto questo comunicavano coi loro abiti tipici turchesi e i loro volti: Non c’era la noia dell’attesa, la stanchezza, l’insofferenza che si leggeva sulla maggior parte dei volti degli altri.
La presenza di sempre più persone che provengono da altri paesi e scelgono l’Italia per vivere dovrebbe rappresentare davvero un arricchimento culturale per tutti, ma anche un possibile allargamento del pubblico per i negozi, per gli esercizi commerciali, per il mondo del commercio.
La ricerca pedagogica condotta negli ultimi vent’anni ha ormai accertato che per educare a forme di pensiero interculturale non bastano le lezioni tradizionali; è necessario che i docenti o gli educatori operino in un’ottica di convergenza: bisogna riuscire a trasmettere un pensiero dinamico, aperto, dialogico. Anche coloro che operano e opereranno nel mondo dell’impresa, del commercio si devono formare una mentalità aperta, in grado di rispondere ai bisogni specifici dei gruppi di possibili (e auspicabili…) clienti sempre più plurietnici. Le buone pratiche didattiche in educazione interculturale non avvengono per caso; lo stesso dovrebbe accadere nel mondo dell’impresa e del commercio. A tutti i livelli di un’impresa (dal titolare, al responsabile di negozio e poi giù giù fino alla giovane commessa temporanea) si dovrebbe imparare a conciliare elementi di diversità e di unità delle culture, attraverso le scelte del dialogo, del tentativo di capire l’altro e i suoi gusti. Le buone pratiche sia nella formazione sia nel mondo dell’impresa si manifestano in attività che:
– consentono agli adulti e ai ragazzi di avere relazioni attente agli aspetti diversi e a quelli simili delle rispettive abitudini familiari, delle tradizioni, degli universi culturali;
– aiutano ad acquisire una consapevolezza graduale delle culture che stanno dietro a ciascuna persona.
In un periodo di crisi economica come l’attuale, forse anche il mondo dell’impresa ha bisogno di una comunicazione diversa, di scambio di esperienze, di relazioni che si creano fra i soggetti coinvolti, di acquisizioni cognitive. E’ sempre più vero che le comunità straniere hanno i loro negozi (asiatici, africani, da qualche tempo si vedono nelle città market rumeni e ucraini…), ma credo che il mondo del commercio (piccolo e medio) gestito da titolari italiani non debba (ancora!) gettare la spugna. Forse la differenza la fa il modo di gestire il contatto col pubblico; forse è necessario far comprendere ai clienti che si è rispettosi dell’identità che una donna, una famiglia, una giovane ragazza si portano dietro (e mostrano) entrando in negozio. Forse ciò può rappresentare un elemento in più, utile a fidelizzare nuovi clienti, a far sì che tornino in negozio, che portino magari anche altri con sé la prossima volta che vengono a fare un acquisto.
(L’immagine dell’abito è tratta dal web)