A cura dell’Avv.to Domenico Monteleone, patrocinante in Cassazione
Vogliamo concentrare la nostra attenzione su due disposizioni della nostra Carta Costituzionale o, meglio, di ciò che ne resta dopo la firma dei Trattati Internazionali come quello di Lisbona.
Ci riferiamo al primo comma dell’Art. 4 il quale recita testualmente che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” ed al primo comma dell’Art. 36 il quale dispone che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Il combinato disposto di queste due disposizioni – ovvero il dettato normativo che si ricava da queste due norme – inquadra la tutela della dignità del lavoratore.
Nel periodo attuale, parlare di dignità del lavoratore sembra abbastanza fuori moda poiché non c’è quasi più nessuno che mette tale tematica al centro del dibattito ed al centro della propria politica.
Si parla solo di interessi diversi e si mette al centro di tutto quello che sembra essere un grande “moloch” ovvero il mercato, divenuto una specie di divinità sul cui altare sacrificare – senza neanche troppi pensieri – ogni diversa esigenza ed ogni diversa prospettiva.
In questa sede ed in questo piccolo spazio vogliamo, invece, rimettere la dignità del lavoratore e quindi la dignità dell’uomo al centro del sistema, al centro di tutto.
Si badi bene che siamo di fronte a principi consacrati nella Costituzione e, dunque, tutte le leggi dovrebbero conformarvisi a pena di declaratoria di incostituzionalità della norma che non fosse aderente a tali dettati.
Senza imbarcarci in disquisizioni filosofiche, appare di tutta evidenza che richiamare il concetto di dignità del lavoratore è pretendere la salvaguardia di tutta una serie di aspetti che riguardano le modalità con le quali viene richiesta e posta in essere la prestazione lavorativa.
Dignità è, allora, una retribuzione che deve avere una doppia caratteristica, ovvero la proporzionalità e la adeguatezza.
In poche parole, la retribuzione deve essere rapportata al lavoro effettivamente svolto in termini qualitativi e quantitativi e deve, altresì, essere ampiamente sufficiente ad assicurare una vita soddisfacente al lavoratore ed alla sua famiglia.
Il vero problema – anzi la vera tragedia – è che, probabilmente, molti fra quelli che ci stanno leggendo staranno giudicando come candide o ingenue queste argomentazioni.
Staranno pensando che oramai è anacronistico aspettarsi che il lavoratore possa pretendere di assicurare una vita soddisfacente a se stesso ed alla propria famiglia.
Sarà anacronistico o ingenuo ma noi ancora oggi – ancora in questa società dove le fredde leggi del mercato annullano e superano tutte le altre – vogliamo credere che il genere umano sia ancora il centro di qualsivoglia progetto politico, di qualsiasi progetto tout court.
La dignità del lavoratore è allora un fine cui tendere, un fine cui devono tendere e mirare le leggi ed a cui deve essere finalizzato qualsiasi progetto di riforma.
Con questi criteri – che possono essere assunti a parametri di riferimento – dobbiamo osservare il mondo giuridico ed osservarlo soprattutto alla fonte, cioè allorquando le norme vengono concepite, approvate e “immesse” nell’ordinamento.
Una legge sarà, allora, una buona legge solo e soltanto se ha riguardo, se tutela la dignità del lavoratore; in caso contrario saremo di fronte ad una legge che – tendenzialmente – deve essere espunta dall’ordinamento.
Si faccia attenzione che queste affermazioni non sono mere affermazioni ideologiche o di principio: esse sono affermazioni che trovano basamento nel dettato costituzionale e – come noto – la Costituzione non può essere contraddetta, violata o sovvertita da una legge di rango inferiore.
La verità è, però, che abbiamo davanti agli occhi le recenti riforme con l’abbattimento delle tutele che diventano – con una trovata letteraria bizzarra – via via “crescenti”; abbiamo sotto gli occhi leggi che autorizzano, per usare un eufemismo, corrispettivi modesti; abbiamo sotto gli occhi norme, come quelle sui licenziamenti, che consentono di tenere il lavoratore in uno stato di continuo disagio e di continua sottomissione.
Come si conciliano allora tali norme con le tutele – diremmo ferree – riportate in Costituzione e volute fermamente dai grandissimi giuristi che hanno elaborato, redatto ed approvato la Carta Costituzionale?
Già: come si conciliano?
Non si conciliano. Questo è il punto!
Ed il punto è, soprattutto, che questo aspetto, quello della dignità dei lavoratori, sembra non interessare veramente più nessuno. Non interessa al legislatore, non interessa agli osservatori, non interessa ai media. Questo è il punto. Ed è in arrivo il TTIP … alla faccia di Joseph Conrad: “Il lavoro non mi piace, non piace a nessuno, ma a me piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi.”