Eventi socio-culturali

“Memoria, perdono e amore sono compito di ciascuno”: incontro con Edith Bruck

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Si racconta l’ottantatreenne scrittice ungaro-ebrea sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz 

di Laura Carmen Paladino, giornalista

Esile e forte come una colonna, diritta e alta d’antica storia, Edith Bruck ci stupisce per la dolcezza determinata che si cela nella sua persona: i suoi modi garbati, la sua gentilezza si manifestano subito formati da una radice antica. E ci conquistano irrimediabilmente. 

La abbiamo incontrata, in margine alla presentazione di un suo libro, e abbiamo letto in lei tutta la ricchezza, antica e preziosa, della sua cultura, coniugata ad una comprensione formidabile della modernità: ci ha colpiti specialmente quando ha detto, con una lucidità straordinaria, che oggi, di fronte a quanto raccontano i giornali, lei riflette sull’utilità di ricordare quello che ha vissuto, di richiamare alla mente l’olocausto e le sue nefandezze, che continua a portare nelle scuole, sapendo di essere investita del dovere di narrare per non far dimenticare. E noi, mentre la ascoltiamo, ci ricordiamo del titolo di un volume interessante di Jean Pierre Sonnet: “Generare è narrare”. Perchè raccontare è propriamente generare alla vita, è un atto sacro portatore di una fecondità segreta. Ecco perchè lei continua a raccontare, e lo fa di fronte alle nuove generazioni, e non sopporta che gli studenti mastichino svogliatamente chewing gum, quasi abbandonati sulle sedie, o che tengano gli occhi incollati al cellulare mentre lei parla di sé, dei suoi genitori, di una storia che appartiene a tutti: “non capiscono quanto l’ignoranza sia nemica di loro stessi e dell’umanità”, dice senza mezze misure. E di questa svogliatezza accusa gli adulti, una generazione che non sa formare più e non sa narrare più, né nel contesto privato della famiglia e della casa, né nel contesto pubblico. “Noi siamo stati delegati a raccontare”, dice, “ma non è giusto: dovrebbe farlo la scuola!”. E nel frattempo sente e vede lucidamente che altre nefandezze, quelle che si consumano oggi, nell’indifferenza di molti, andrebbero con forza e con urgenza raccontate, perché sono quelle che, pur passando tutti i giorni sugli schermi delle televisioni, restano inosservate e inascoltate, ma non per questo sono meno feroci e meno preoccupanti di quelle del passato. “Io senza Auschwitz non esisto”, ci dice schiettamente: “è da lì, da quella esperienza che traggo argomenti per raccontare: dalla malvagità degli uomini. Però ho quasi pudore di parlarne dato quello che sto vedendo oggi, tutte quelle persone che stanno morendo inutilmente”.
C’è tutta la tradizione biblica in questa convinzione, quell’idea alta e precoce dell’importanza della vita umana che faceva vietare i sacrifici di bambini con il racconto di Abramo e Isacco e che faceva dire agli Israeliti che il loro Dio era il Dio dei viventi, lodato dai vivi e non dai morti, capace di promesse “per quanti oggi sono in vita”: e c’è tutta la tradizione biblica in lei, donna dei nostri giorni, capace di presente e di futuro, di sguardi lucidi e di parole franche.
“Per quello che ho sofferto ho sempre sognato che le persone si amassero”, ci dice bruscamente: “penso che ogni persona debba essere educata all’amore universale. E so che è un sogno, ma è il mio”. Perché “come diceva Moravia, da Auschwitz non si esce mai, è un vissuto che ti accompagna tutta la vita: dopo senti diversamente la morte degli altri, le oppressioni che altri subiscono, e conservi una sensibilità particolare, proprio in quanto sopravvissuto. Io per esempio non riesco a trattare male nessuno, neanche chi maltratta me: se non fossi stata ad Auschwitz, forse reagirei alle offese. Ma penso oggi che chiunque viva deve vivere, se Dio lo ha creato deve vivere, e non bisogna fargli del male, anche se lui in persona compie il male”. “Per questo nei miei libri non si troverà mai una parola di odio contro gli esseri umani: ho sofferto molto a causa dell’odio e non voglio odiare nessuno. Partecipo piuttosto di quanto avviene nel mondo: io sento veramente quello che scrivo, vorrei un mondo diverso e soffro veramente di vedere quello che sta succedendo. Quando c’è stata la grande fame io non mangiavo, e ancora oggi faccio quello che posso fare per condividere la sofferenza degli uomini: perché anche una goccia nel mare è importante”. Quanta tradizione c’è in queste parole! Una tradizione costruita con pazienza e convinzione da straordinarie donne ebree. Mentre le ascoltiamo, ci tornano in mente tante connessioni, e tra gli altri ripensiamo agli scritti di Simone Weil, alla sua urgenza di condividere le sofferenze degli uomini, nell’epoca nera del conflitto mondiale… E ci risuonano in testa le parole e le idee di Annah Arendt sulla condizione umana, che hanno prodotto opere filosofiche di altissimo valore. Con queste donne straordinarie la Bruck condivide tante cose, anche una certa solitudine per le sue idee più coraggiose, come lei stessa riconosce nella corso della sua densa e lunga testimonianza.
“Mi hanno detto che questa attenzione alle sofferenze del mondo è molto cristiana, e hanno tentato di convertirmi al cristianesimo”, continua Edith Bruck. “Ma io dico che è anche ebraica”. E’ biblica, diremmo noi… E dunque è umana, appartiene all’uomo, è patrimonio della storia e della cultura, della sensibilità e della fede di quanti ci hanno preceduto, che era soprattutto fede in ciò che è vero e non teme di diventare obsoleto negli anni, al di là delle convinzioni religiose di ciascuno…
Qualcuno le chiede se lei perdona quanto ha subito. La sua risposta è pronta e chiara, più alta della domanda, di nuovo forte di una tradizione che viene da lontano, e che conferisce valore alle parole, agli atti e alla responsabilità personale: “Io non faccio male a nessuno. Ma ognuno perdona per se stesso, dunque io non sono in grado di perdonare per tutti. Non posso perdonare al posto di mia madre o di mio fratello. Io ho ricevuto una grazia per cui non serbo odio contro nessuno. Mi hanno addirittura chiesto cosa farei alla persona che ha messo nel forno mia madre. Io non farei niente, non agirei contro quella persona. Non tocca a me agire contro di lei”.
Parla anche di differenza tra i sessi, la signora Bruck: e comincia con una affermazione che potrebbe suonare politicamente scorretta, ma è nelle sue corde parlare senza mezzi termini. “Secondo me gli uomini sono più deboli delle donne”, dice; “nei campi di concentramento sono morti più uomini che donne. Oggi forse la situazione è migliorata proprio perchè gli uomini adesso partecipano di più alla vita dei figli, e questo dà loro più fantasia”. E’ la fantasia dunque, secondo Bruck, che caratterizza la dimensione del femminile, perché essa ha direttamente a che fare con la conservazione della vita e con il compito di proteggere i figli: “la donna ha sempre saputo inventare per salvare la vita”. Anche qui, quanta Bibbia ritroviamo, e quanta sapienza tutta femminile, piena di fantasia e di inventiva, che scorre in questi termini nelle donne che popolano le storie del testo sacro degli ebrei e dei cristiani. Quanta poesia passa nei racconti biblici al femminile: una poesia ancora, a nostro avviso, troppo poco nota, troppo poco conosciuta… Forse per questo lei stessa, fin da bambina, ha amato la poesia. E ci confessa: “ancora oggi, invece della preghiera serale, io leggo la poesia: per me è quasi religiosa e profetica”. Come profetica è per lei la lingua italiana, che le dà libertà. E’ quasi una “corazza che mi difende: attraverso essa dico cose che nella mia lingua di origine non direi. Forse perché con questa lingua mi proteggo, quasi non sentissi tutta la profondità, la larghezza e il significato della parola che uso. Se dico una cosa brutta in italiano non la sento così brutta, in ungherese sì”. Ecco la dimensione di profezia: dire cose che ci trascendono senza esserne feriti irrimediabilmente, parlare di ciò che rimanda all’Altro da noi senza esserne segnati fino a non poterne parlare ancora. “Io parlo nelle scuole”, ci dice ancora Edith Bruck, “e questo mi costa tanto: ogni volta che vado piango tre giorni prima e tre giorni dopo… ma lo faccio per loro: parlo perché se riesco a far riflettere anche solo tre o quattro persone, allora essere sopravvissuta ad Auschwitz non è stato inutile… Spesso mi chiedo perché sono sopravvissuta. E mi rispondo: forse proprio per scrivere i libri”.
Libri pieni di radici e di profezia: tutta al femminile, tutta traboccante di vita e di fantasia. Tutta ricca di fiducia nel futuro, una fiducia che nasce proprio dall’aver conosciuto così terribilmente la morte: perché la morte non ha l’ultima parola, non vince mai definitivamente sugli uomini, e la malvagità non uccide mai davvero quanto è autenticamente umano.

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