Diritti Lavoro

PARITA’ RETRIBUTIVA, INTERVISTA ESCLUSIVA ALLA DEPUTATA CIPRINI

Donna in Affari ha intervistato la deputata Tiziana Ciprini, la parlamentare che ha presentato la proposta di Legge sulla parità retributiva uomo-donna

 

Nel 2018 come prima firmataria parlamentare del Movimento 5Stelle ha presentato la proposta di Legge C.522 per denunciare il regresso nella parità di genere, favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e superare il divario retributivo. Quali sono le finalità del provvedimento?
La proposta di Legge si muove secondo due direttrici: la prima prevede una serie di misure per contrastare ex ante e a monte il gap retributivo di genere, attraverso misure premiali per le aziende che rimuovono le discriminazioni nonché norme per il contrasto alla scarsa trasparenza delle retribuzioni che finisce per contribuire alla discriminazione retributiva a danno delle donne (secondo Eurobarometro, fra i cittadini europei 1/3 non conosce il salario dei propri colleghi e quasi 2/3 sono favorevoli alla divulgazione interna dei salari medi per sesso e tipologia professionale da parte del proprio datore di lavoro); la seconda prevede una serie di misure per favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per realizzare pienamente la conciliazione tra i tempi vita/lavoro, anche al fine di ridurre l’effetto “penalizzante” delle cure familiari che spesso gravano sulla donna lavoratrice. Secondo il Global Gender Gap Report 2020, l’Italia è scesa dal 70° al 76° posto mondiale nella classifica dei Paesi che attuano la parità salariale. Una donna italiana guadagna in media circa 17.900 euro l’anno rispetto ai 31.600 maschili e a fronte di molte più ore lavorate, perché viene pagata proporzionalmente meno e fa molto più lavoro non retribuito di un uomo (lavori domestici, cura dei figli, ecc.). Ma è evidente che il problema delle differenze di genere è un problema “globale”. In Europa, da tempo, il gender gap è nel mirino delle istituzioni UE: il Regolamento (CE) n. 1922/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio ha istituito l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, col compito di aiutare le istituzioni europee e gli Stati membri a integrare il principio di uguaglianza nelle loro politiche e a lottare contro la discriminazione fondata sul sesso. Sempre nel 2006 viene emanata la Direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, che stabilisce l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Il problema del gap retributivo di genere non solo rappresenta una delle maggiori iniquità sociali ma molti studi evidenziano che la crescita del tasso di occupazione femminile può rappresentare un forte stimolo alla crescita del PIL. Inoltre, dalla ricerca previsionale «Lavoro 2025 – il futuro dell’occupazione e della disoccupazione», condotta dal sociologo del lavoro Domenico De Masi, è emerso che quello della donna sarà un ruolo chiave in un mondo del lavoro che cambia, sempre più legato a un’economia dei beni relazionali e ai lavori creativi. Le donne potranno apportare il loro valore aggiunto se riusciranno a valorizzare le proprie differenze, le proprie caratteristiche fondamentali, come la determinazione nel perseguire il bene comune, la motivazione a cambiare le cose, l’attitudine ai valori sociali e un atteggiamento più prudente rispetto ai rischi.

È possibile attuare misure all’interno dell’azienda per contrastare ex ante e a monte il gap retributivo di genere? Ci sono strumenti specifici per rimuovere queste discriminazioni?
Attualmente il decreto legislativo 198/2006, il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, all’articolo 46 prescrive alle aziende con più di 100 dipendenti di redigere un rapporto biennale sui vari aspetti inerenti alle pari opportunità sul luogo di lavoro, inclusa la retribuzione. Ma oggi non esiste un modo per sapere quali aziende abbiano redatto il rapporto e quali no, quali siano state sanzionate, né i dipendenti delle aziende hanno modo di accedervi per verificare eventuali discriminazioni.
Con la mia proposta di Legge, che si ispira ad altre normative in vigore nei Paesi europei, prevedo l’introduzione dell’attività di reporting sulla situazione salariale del personale maschile e femminile anche per le imprese sotto i cento dipendenti, e l’adozione di un piano di azioni per la parità salariale con la possibilità per le imprese di ottenere una sorta di «certificazione di pari opportunità di lavoro». Infatti, secondo uno studio condotto dall’Harvard Business Review, il primo studio empirico sull’impatto della trasparenza salariale obbligatoria, è emerso che già la trasparente comunicazione delle disparità retributive di genere riduce di fatto il divario stesso e spinge le aziende a rimuovere “volontariamente” le disparità rilevate.
Sicuramente l’attuale rapporto biennale sulla parità va ripensato perché obsoleto e complesso. Inoltre, va evitata ogni finalità ispettiva e punitiva nell’attività di reporting, per far sì che anche le piccole e medie imprese (che costituiscono la maggior parte del nostro tessuto produttivo) possano percepire la novella legislativa come opportunità e non come ulteriore aggravio burocratico. A mio avviso un’impostazione promozionale della Legge è fondamentale per la buona riuscita della stessa.

Secondo lei quale strada è percorribile per realizzare la conciliazione tra i tempi di vita e quelli di lavoro?
È importante agire su più leve. Innanzitutto, potenziare la “rete” delle politiche pubbliche di sostegno alla famiglia (con interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per realizzare, ad esempio, asili nido pubblici accessibili a tutti) e poi valorizzare anche lE misure di welfare aziendale in tema di organizzazione dei tempi di lavoro e familiare (es. asili aziendali). La leva pubblica però è prioritaria per agire in un’ottica universalistica ed evitare di polarizzare troppo i beneficiari dei servizi (ad es. lavoratori di serie a che hanno gli asili aziendali e lavoratori di serie b che non li hanno). Ricordo che la recente Legge di bilancio per il 2020 (n. 190/2019) ha già previsto l’istituzione del “Fondo assegno universale e servizi alla famiglia”. Le risorse del Fondo sono indirizzate all’attuazione di interventi in materia di sostegno e valorizzazione della famiglia nonché al riordino e alla sistematizzazione delle politiche di sostegno alle famiglie con figli. È altrettanto importante rafforzare le misure che portano alla condivisione della responsabilità di cura della famiglia e dei figli in capo ad entrambi i genitori affinché la cura dei figli non “pesi” solo ed esclusivamente sulla madre lavoratrice, la quale spesso è costretta a lasciare il lavoro dopo la nascita del figlio. In tal senso va molto bene la norma introdotta in Legge di Bilancio per il 2020 che proroga per il 2020 il congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente, elevandone la durata a sette giorni per l’anno 2020.

La proposta di Legge introduce la nozione di discriminazione diretta e indiretta. A quali fattispecie si riferisce e quali sono gli status di svantaggio che condizionano lo sviluppo della carriera di una donna rispetto agli altri lavoratori?
Nella PdL si prevede l’introduzione nel Codice delle Pari Opportunità, tra le discriminazioni indirette, anche degli atti di natura organizzativa e oraria che possono mettere in condizione di svantaggio la lavoratrice o ne limitino, nei fatti, lo sviluppo di carriera. Un sotto-inquadramento della lavoratrice, a parità di lavoro effettivamente svolto, un mancato avanzamento di livello possono condurre a discriminazioni salariali «occulte». Determinate politiche salariali e di organizzazione dei tempi di lavoro, che permettano di conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari, contribuiscono alle diseguaglianze di retribuzione nelle aziende. Si pensi alla “prassi” di fissare riunioni “importanti” nel tardo pomeriggio che non permettono alla donna lavoratrice di parteciparvi ovvero modalità di organizzazione dei tempi di lavoro che possono portare ad un mancato avanzamento di livello o comunque ad una limitazione dello sviluppo di carriera per la donna impegnata anche nella cura dei figli e della famiglia. In tal senso anche l’attribuzione a determinati soggetti di fringe benefits complementari alla retribuzione principale può essere utilizzata con l’effetto di discriminare sotto il profilo retributivo e limitare la carriera lavorativa della donna.

Nelle imprese private e nella pubblica amministrazione sono previsti piani di azione e strumenti obbligatori per superare il divario retributivo di genere? e in che misura?
Le imprese e le amministrazioni pubbliche, con cadenza annuale e su richiesta, svolgono un programma di audit interno (come prevede anche la legislazione spagnola e austriaca) e comunicano ai propri lavoratori, alle rappresentanze sindacali e agli organismi di parità previsti dal Codice una serie di informazioni e di dati in forma chiara e trasparente sulla composizione e sulla struttura dei redditi, sulle mansioni, sui meccanismi e sulle modalità di erogazione dei bonus, dei trattamenti accessori e di altre erogazioni previste a favore dei dipendenti, nonché le differenze tra i salari di partenza degli uomini e delle donne. Le imprese sono chiamate ad attuare un piano di azioni, condiviso dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali, che ne valutano i contenuti, volto a colmare il divario retributivo e le disparità di trattamento. Si tratta di contrastare la scarsa trasparenza delle retribuzioni, che finisce per contribuire alla discriminazione retributiva a danno delle donne, nella misura in cui rende meno evidente e quindi aggredibile il fenomeno. Tale sistema è accompagnato da misure premiali di tipo fiscale a favore delle imprese che adottano efficaci piani di azione.

Alle aziende che hanno posto in atto i piani di azione viene riconosciuta una certificazione particolare? Quali vantaggi ci sono per le imprese e come si concretizzano?
Le imprese che hanno attuato il piano di azioni possono ottenere la certificazione di «Impresa per le pari opportunità nel lavoro», una sorta di bollino rosa. La certificazione è rilasciata dal Comitato nazionale per l’attuazione dei princìpi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici. Tale sistema è accompagnato da misure premiali di tipo fiscale a favore delle imprese che adottano efficaci piani di azione, come detrazioni d’imposta per le spese documentate per l’acquisto di beni strumentali e dispositivi tecnologici.

In cosa consiste l’introduzione del curriculum anonimo?
All’art 3 della mia proposta di Legge propongo di introdurre in Italia la sperimentazione del curriculum vitae anonimo, ovvero un curriculum cieco che ometta informazioni personali come il nome e cognome, sesso, età, fotografia, e qualsiasi altra informazione che potrebbe dare luogo a qualsiasi pregiudizio discriminatorio in un processo di reclutamento e selezione del personale. Lo scopo è quello di far valere nel mercato del lavoro italiano le competenze e le skills, attraverso la sola espressione del profilo professionale del candidato, della sua formazione, esperienze lavorative, conoscenze, capacità e attitudini professionali, a garanzia di un’effettiva parità nei processi di selezione e assunzione. La discriminazione sul lavoro non solo è ingiusta, ma anche dannosa: se un’azienda non assume i talenti migliori per qualche pregiudizio sul loro aspetto, orientamento sessuale, religione o genere, avvantaggia i concorrenti. Quante donne si sono trovate di fronte a futuribili datori di lavoro più interessati ad approfondire i loro obiettivi riproduttivi e familiari rispetto alle loro competenze? Quanti uomini e quante donne, over 40 e over 50, si sono visti rifiutare un posto di lavoro perché “troppo vecchi”, nonostante avessero competenze adeguate al posto da ricoprire? Quanti giovani e meno giovani si sono visti scavalcare dai “figli di”? Quanti giovani e meno giovani, donne e uomini, si sono visti discriminare nell’accesso a un posto di lavoro per una qualche caratteristica personale? Illuminante è uno studio condotto dagli economisti Patacchini, Boeri e Peri. Secondo quanto riportato dal Sole24Ore del 10 dicembre 2019, in un esperimento condotto a Milano e Roma, gli studiosi hanno trovato che se un candidato a un posto di lavoro suggeriva preferenze omosessuali nel proprio curriculum – per esempio attraverso periodi di tirocinio in associazioni come “Arcilesbica Roma” oppure “Centro di Iniziativa Gay-Arcigay” – aveva circa il 30% di probabilità in meno di essere richiamato per un colloquio. Questo valeva in effetti soltanto per i candidati maschi omosessuali, mentre non sono risultati svantaggi particolari di questo genere per le donne omosessuali. Gli autori sono arrivati a questo risultato inviando a potenziali datori di lavoro migliaia di curriculum appositamente progettati, in cui erano presenti certe caratteristiche relative a età, titolo di studio, orientamento sessuale e aspetto fisico, in modo da poter stabilire in seguito se qualcuno di questi elementi rendeva più o meno probabile un colloquio successivo. La sperimentazione del curriculum anonimo è già stata intrapresa in altri Paesi in Europa, ad esempio da Spagna, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda e Svezia. In Germania l’Agenzia federale antidiscriminazione ha lanciato un progetto pilota per promuovere e diffondere nel settore pubblico e privato la procedura di reclutamento anonima. In Francia la disciplina del “curriculum anonimo” è prevista per le imprese con più di 50 dipendenti a garanzia delle pari opportunità.

Come viene disciplinato l’istituto del congedo parentale e del diritto alla conservazione del posto di lavoro? Si prevedono parametri o percentuali retributive per il calcolo dell’indennità del congedo?
L’articolo 4 prevede l’innalzamento dell’indennità del congedo parentale dal 30% all’80% della retribuzione.

Cosa prevede l’istituto delle ferie solidali? Tutti i lavoratori ne possono usufruire?
La PdL introduce le ferie solidali, finalizzate a migliorare la gestione dell’orario di lavoro e la compatibilità tra gli impegni di lavoro e le esigenze di cura di familiari con patologie gravi. In realtà esistono già dei casi ed esempi virtuosi di “ferie solidali” attivate dai lavoratori alcune aziende. Allo scopo di favorire il ricorso a forme di flessibilità dell’orario, funzionali alle esigenze di cura personale o familiare dei lavoratori, i lavoratori dipendenti possono cedere, in tutto o in parte, le ferie e i riposi compensativi previsti dalla disciplina della banca delle ore del contratto collettivo di lavoro ad altri lavoratori in presenza di patologie gravi proprie, dei figli, del coniuge, del convivente di fatto o della persona legata da un’unione civile, qualora tali lavoratori si siano avvalsi di tutti i permessi loro spettanti ai sensi della Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Lo svolgimento della prestazione lavorativa è disciplinato da accordi decentrati di secondo livello, nei quali sono definite le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e dell’organizzazione dei tempi della medesima. Gli accordi possono essere applicati nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato.

La norma prevede bonus o detrazioni fiscali a sostegno della famiglia per la nascita e la crescita dei figli?
Sono previsti sgravi contributivi triennali per le imprese che non licenziano le dipendenti diventate mamme nel corso della loro carriera professionale e un premio retributivo da 150 euro mensili per 3 anni dalla fine della maternità per quelle donne che decidono di non lasciare il posto di lavoro dopo la nascita o l’adozione del figlio. Si prevede inoltre l’innalzamento delle indennità di maternità dall’80 al 100%.

Per le categorie con bassi redditi, terza età, famiglie che hanno a carico persone anziane e ammalate che necessitano di assistenza domiciliare, sono previste agevolazioni fiscali? Se sì a quali fasce di reddito si applicano?
All’art 6 Si prevedono agevolazioni per l’acquisto di prodotti di prima necessità per l’infanzia e la terza età. In particolare, si riduce al 4% l’IVA per l’acquisto di prodotti neonatali e per l’infanzia nonché per l’acquisto di prodotti, dispositivi e protesi per il miglioramento delle condizioni di vita e per il benessere della terza età. È innalzato anche l’importo detraibile per l’assunzione di collaboratrici domestiche e di badanti.

È possibile disciplinare l’erogazione dei servizi socio-assistenziali per la prima infanzia all’interno dell’azienda?
Si prevedono agevolazioni per la creazione di asili nido aziendali con una detrazione del 36% per opere e progetti messi in atto da aziende con almeno 15 dipendenti.

Per consentire alle donne di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico, quali condizioni servono per valorizzare ai fini contributivi i periodi di maternità e assistenza?
Si prevedono contributi figurativi dei periodi di maternità e assistenza o cura di familiari vengano considerati doppi ai fini pensionistici: 1 mese di congedo è pari a 2 mesi di contribuzione figurativa e a 2 mesi anagrafici utile per il pensionamento. L’intervento è volto a ridurre il periodo di lavoro effettivo (per anzianità e per contributi) che grava sulle donne.

La Legge di bilancio 2020 ha esteso alle lavoratrici che hanno maturato i requisiti per la pensione la possibilità di ricorrere al regime opzione donna. Quali sono i requisiti e a quali lavoratrici si applica?
Il comma 476 dell’art. 1 della Legge n. 190 del 2019 (Legge di bilancio per il 2020) reca disposizioni concernenti l’istituto sperimentale per il pensionamento anticipato delle donne (cd. Opzione donna), estendendone la possibilità di fruizione alle lavoratrici che abbiano maturato determinati requisiti entro il 31 dicembre 2019, in luogo del 31 dicembre 2018, come previsto dalla precedente normativa. Nel dettaglio – modificando l’articolo 16, comma 1, del D.L. 4/2019 – si prevede che il diritto al trattamento pensionistico anticipato secondo le regole di calcolo del sistema contributivo venga riconosciuto, nei confronti delle lavoratrici che abbiano maturato, entro il 31 dicembre 2019 (in luogo del 31 dicembre 2018) un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni ed un’età anagrafica pari o superiore a 58 anni (per le lavoratrici dipendenti) e a 59 anni (per le lavoratrici autonome). La cosiddetta opzione donna è una misura sperimentale introdotta dall’art. 1, c. 9, della L. 243/2004 che prevede la possibilità per le lavoratrici che hanno maturato 35 anni di contributi e 57 anni di età, per le lavoratrici dipendenti, o 58 anni, per le lavoratrici autonome (requisito anagrafico da adeguarsi periodicamente all’aumento della speranza di vita), di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico, a condizione che optino per il sistema di calcolo contributivo integrale. Tale opzione, per anni poco utilizzata, è stata esercitata invece in maniera più consistente dopo la riforma pensionistica realizzata dal D.L. 201/2011 (cd. Riforma Fornero), che ha notevolmente incrementato i requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso al trattamento pensionistico, consentendo alle lavoratrici di anticipare di parecchi anni l’uscita dal lavoro, sia pur con una riduzione dell’importo della pensione.

In che consiste il contributo unificato in riferimento alle controversie in materia di violazione dei divieti di discriminazione?
L’art. 11 della PdL in discussione esenta dal pagamento del contributo unificato (i vecchi “bolli” e altre spese sul processo) i processi per le controversie in materia di violazione dei divieti di discriminazione di cui al codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D. Lgs. 11/04/2006, n. 19811 aprile 2006, n. 198). La disposizione introduce quindi nel TU spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) due nuove ipotesi di esenzione dall’obbligo di pagamento del contributo unificato dei processi:

  • per le controversie promosse dai soggetti che si ritengono oggetto di un comportamento discriminatorio nei rapporti di lavoro;
  • per le controversie nelle ipotesi di discriminazione collettiva nei rapporti di lavoro promosse dalle consigliere o dai consiglieri di parità locali o nazionale.

È una misura importante per “agevolare” il contrasto alle discriminazioni nei rapporti di lavoro. L’articolo 36 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) prevede che chi intende agire in giudizio per opporsi ad ogni comportamento discriminatorio posto in essere possa ricorrere, avanti al Tribunale, in funzione del Giudice del Lavoro, sia direttamente che delegando il Consigliere di parità, per la tutela dei propri diritti. Le azioni individuali possono esser precedute dalle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, oppure ex art. 410 c.p.c. (con facoltà di assistenza, in quest’ultimo caso, dei Consiglieri di parità). L’art. 36, comma 2, prevede che “le consigliere o i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti per territorio hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima”. La norma introduce un’ipotesi di sostituzione processuale, che presuppone la delega della persona interessata e stabilisce poi la possibilità, per il Consigliere di parità, di intervenire nei giudizi promossi in via autonoma dalla medesima persona. L’art. 37 riguarda invece le ipotesi di discriminazioni collettive e stabilisce che i Consiglieri di parità regionali e, nei casi di rilevanza nazionale, il Consigliere di parità nazionale, qualora “rilevino l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo… anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni”, possono, dopo l’eventuale esperimento di un tentativo di conciliazione (comma 1), proporre ricorso al Giudice del lavoro o al Tribunale Amministrativo Regionale (comma 2), eventualmente anche in via d’urgenza (comma 4).

Potrebbe interessarti