Salute e benessere

Gravidanza, parto e allattamento al seno

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piedini-neonatoUn’indagine sulla salute femminile realizzata dall’Istat evidenzia luci e ombre del sistema sanitario italiano per quanto riguarda l’aspetto più intimo della femminilità a confronto con le indicazioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)

Le donne in Italia fruiscono di un buon livello di assistenza durante la gravidanza? Secondo la ricerca effettuata dall’Istituto nazionale di statistica condotta su 2,7 milioni di donne sembrerebbe proprio di sì, visto che il 94,3% delle donne “in attesa” si sottopone alla prima visita entro il terzo mese di gravidanza, proprio come raccomandato dai protocolli nazionali.

Continua però ad aumentare la medicalizzazione in gravidanza, dato poco positivo poiché le donne eccedono nei controlli ecografici, considerando che il 37,6% ha fatto almeno 7 ecografie durante la gestazione (il 23,8% nel 2000 e il 28,9% nel 2005).

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Inoltre, l’Italia è il Paese europeo con il più alto ricorso al taglio cesareo – fatto particolarmente negativo – al quale si ricorre soprattutto nel Mezzogiorno.

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Fortunatamente le donne in gravidanza decidono di smettere di fumare, consapevoli del danno che il fumo provoca al feto: lo fa il 74% delle gestanti, solo il 3% non modifica le proprie abitudini al fumo (6,8% nel 2000). L’89,2% delle donne più istruite smette di fumare contro il 65,2% di quelle che hanno al massimo la licenza di scuola media inferiore.
E quando si tratta di parto naturale cosa cambia in ambito sanitario? Purtroppo anche nell’assistenza al parto spontaneo non mancano pratiche di medicalizzazione nella fase del travaglio o del parto; nel 32% dei casi riguardano la rottura artificiale delle membrane, nel 34,7% l’episiotomia e nel 22,3% la somministrazione di ossitocina per aumentare la frequenza e l’intensità delle contrazioni.
Nella fase postparto il comportamento delle donne dal 2000 a oggi è cambiato: gli allattamenti al seno aumentano, in particolare aumentano, rispetto a2005, le donne che allattano al seno (85,5% contro l’ 81,1%) e continua a crescere anche la durata media del periodo di allattamento: da 6,2 mesi nel 2000 a 7,3 mesi nel 2005 fino al valore di 8,3 nel 2013. Il numero medio di mesi di allattamento esclusivo al seno è pari a 4,1; il valore più alto si registra nella Provincia autonoma di Trento (5) e quello più basso in Sicilia (3,5).
Vediamo ora punto per punto cosa dice il report divulgato dall’Istat:

È buona l’assistenza in gravidanza, ma cresce ancora la medicalizzazione

In Italia le donne godono di un buon livello di assistenza in gravidanza. Oltre due donne su tre si sono sottoposte alla prima visita entro il secondo mese di gestazione e quasi la totalità (94,3%) l’ha effettuata entro il terzo mese, come raccomandato dai protocolli nazionali. In particolare cresce la percentuale di donne che effettuano la visita entro la fine del primo mese (dal 23,1% nel 2000, al 34,1% nel 2013)
Le donne straniere, quelle più giovani e quelle con un basso livello d’istruzione tendono ad effettuare più tardi la prima visita. Si sono sottoposte a visita medica entro il terzo mese l’88,7% delle donne straniere contro il 95,5% delle italiane, il 91,0% delle donne più giovani e il 91,5% di quelle con titolo di studio più basso. Tra le donne con titolo di studio alto, tra quelle di oltre 35 anni al momento del parto e tra le donne residenti nel Nord, la percentuale di quante hanno fatto la prima visita medica entro il terzo mese di gestazione supera il 95%.

L’eccesso di medicalizzazione della gravidanza, già registrato nel 2000, si acuisce significativamente, con un aumento ulteriore del ricorso a prestazioni diagnostiche per immagini. Attualmente in Italia, il Sistema Sanitario Nazionale prevede l’esenzione per tre esami ecografici in caso di gravidanze fisiologiche, ma, nel complesso, l’80,3% delle donne ne ha fatte oltre 3, in aumento rispetto al dato già elevato del 2005 (78,5%) e del 2000 (75,3%). Aumenta soprattutto la percentuale di donne che si è sottoposta a 7 ecografie o più: dal 23,8% nel 2000 al 37,6% nel 2013
L’eccesso del numero di ecografie non è dovuto solo a gravidanze con complicazioni che possono richiedere un monitoraggio più frequente o un approfondimento diagnostico: hanno effettuato almeno 7 ecografie il 49,2% delle donne che hanno avuto disturbi in gravidanza, ed il 33,6% di quelle che non hanno avuto tali disturbi. Il 37,7% delle donne con disturbi gravi ha eseguito tra le 4 e le 6 ecografie contro il 44,5% di quelle che hanno avuto una gravidanza fisiologica e solo il 21,9% delle gestanti senza disturbi in gravidanza dichiara di essersi sottoposta al massimo a 3 ecografie, secondo quanto raccomandato dalle linee guida nazionali.

La figura professionale che segue la donna in gravidanza condiziona il livello di medicalizzazione. Le donne seguite da un ginecologo privato effettuano più spesso 7 o più controlli ecografici (45,2%), mentre le quote sono più contenute tra quante sono state seguite da un ginecologo del consultorio (17,3%) o di una struttura pubblica (28%). Anche nel caso di gravidanze fisiologiche l’elevato ricorso a controlli ecografici è molto più alto nel privato (41,8%), rispetto al pubblico (18,5%).
Sono soprattutto le donne residenti nel Mezzogiorno a sottoporsi a 7 o più ecografie nel corso della gravidanza (44,4%), a fronte del 30,6% di quelle residenti nel Nord-Est (30,6%). Se si limita il confronto al ricorso al ginecologo privato, la quota di donne che fanno 7 e più ecografie nel Nord-Est si attesta al 40,0%, e nel Mezzogiorno al 49,8%.
Il livello di medicalizzazione tra le donne straniere risulta, invece, più contenuto: il 20,2% ha effettuato 7 o più controlli ecografici contro il 41,5% delle italiane; il 71,3% si rivolge più spesso ad un ginecologo del consultorio o di una struttura pubblica (il 24,7% delle italiane).

Aumentano le donne che in gravidanza smettono di fumare

Sono ben noti i danni che il fumo comporta per lo sviluppo del feto durante la gravidanza soprattutto per il maggiore rischio di nascita di bambini sottopeso. Le donne mostrano di conoscere questi rischi e modificano responsabilmente i loro comportamenti: dal 2000 al 2013 è aumentata la quota di donne fumatrici che hanno smesso di fumare durante la gravidanza.
Nel 2013, il 20,5% delle donne che hanno avuto figli nei cinque anni precedenti l’intervista, avevano l’abitudine di fumare prima della gravidanza ma, di queste, il 74,1% ha sospeso il consumo di tabacco una volta concepito il bambino, il 22,9% ha diminuito la quantità quotidiana, mentre solo il 3% non ha modificato le proprie abitudini. La percentuale più alta si osserva nel Nord-est: smette di fumare il 77,3% delle future mamme fumatrici.
Il livello di istruzione gioca un ruolo fondamentale nell’indurre la futura madre a sospendere il fumo durante la gravidanza: sono molto più numerose le donne laureate (82,9%) che smettono di fumare rispetto alle gestanti meno istruite (65,2%).

In presenza di lavori pesanti o nocivi una donna su due interrompe il lavoro al terzo mese

La tutela della gravidanza sul lavoro è rilevante per la salute della madre e del feto, in particolare se la donna è impiegata in mansioni nocive o pesanti (nel 2013 il 25,4% delle donne occupate prima della gravidanza). Questo tipo di attività è svolto più frequentemente dalle donne più giovani (39,8%), meno istruite (42,2%), straniere (37,9%) e residenti nel Nord (in particolare nel Nord-Est, 31,9%). In particolare le donne con basso titolo di studio ricoprono in maggioranza mansioni che richiedono sollevamento di carichi e di pesi (71,2%), così come quelle con diploma (59,4%).

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Nel 2013 il 62,4% delle donne occupate in attività pesanti o potenzialmente nocive per la gravidanza ha interrotto il lavoro entro il terzo mese di gravidanza (il 68,0% nel 2005).
Tra le donne occupate che dichiarano di non svolgere un lavoro con mansioni pesanti o nocive circa il 40% lascia il lavoro entro il sesto mese (quota simile al 2005), il 26,7% al settimo mese, in osservanza del periodo di astensione obbligatorio (salvo flessibilità) e solo meno dell’8% aspetta l’ultimo mese di gravidanza. Nel tempo si rileva una progressiva posticipazione dell’astensione dal lavoro dalla fine del settimo alla fine dell’ottavo mese: nel 2000 il 10,9% lasciava il lavoro all’ottavo mese, la quota sale al 21% nel 2005 e si attesta al 27,6% nel 2013, anche come effetto della flessibilità del congedo di maternità dopo l’ottavo mese.

L’Italia si conferma il Paese europeo con più tagli cesarei

L’Italia è il paese con il più alto numero di parti con taglio cesareo dell’Unione europea: la percentuale è pari al 36,3% nel 2013, oltre il doppio di quella raccomandata dall’OMS, e superiore di quasi 10 punti percentuali rispetto alla mediaUe27 (26,7% nel 2011). Anche Stati Uniti e Canada hanno percentuali di tagli cesarei più basse dell’Italia (rispettivamente 31,4% e 26,1% nel 2010).
Nel 2010 e nel 2012, il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità hanno emanato opportune linee guida sul ricorso al taglio cesareo e il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 invitava a contenerne il ricorso al di sotto del 20% del totale dei parti.

I risultati dell’indagine del 2013 confermano, invece, l’elevato ricorso al taglio cesareo, con una stima pari al 35,3%, sostanzialmente stabile rispetto al 2005 (35%).
Il ricorso al cesareo è diffuso in modo molto eterogeneo sul territorio, con valori più elevati nel Mezzogiorno (45,2%).
Il trend temporale evidenzia che il distacco del Mezzogiorno comincia dopo il 1995 e si acuisce sempre più fino al 2008, assestandosi ad oltre il 50%. A partire dal 2010, si avvia in quest’area una lenta flessione, che interessa però anche il Nord-Est.

A livello regionale, la quota più elevata di parti cesari si registra in Campania (56,6%), seguono Sicilia (42,5%), Puglia (41,7%) e Lazio (39%). All’opposto si trovano le Province autonome di Trento (20,6%) e Bolzano (21,7%) e la Toscana (26,4%).

Continua ad aumentare l’età media al parto: da 30,6 anni del 2000 a 32,0 anni nel 2013. Resta leggermente più bassa al Mezzogiorno (31,3) rispetto al Nord (32,2). Per le donne straniere l’età media al parto è di 29,6 anni. All’aumentare dell’età al parto cresce anche il ricorso al taglio cesareo, con una quota massima del 47,2% tra le over 40; ma anche per le donne con meno di 25 anni, la percentuale è elevata e pari al 30,1%.

È nota l’associazione tra i disturbi più gravi che si possono verificare in gravidanza ed il ricorso al parto cesareo (44,9%), in particolare per le donne con gestosi (68,4%) o che hanno sofferto di ipertensione in gravidanza (52,2%). Tenendo conto della bassa diffusione di queste patologie, l’alto livello di parti cesarei rimane comunque un segnale di eccessiva medicalizzazione.
La percentuale di parti cesarei è particolarmente alta nelle strutture private: 64,6% contro 33,4% delle strutture pubbliche.

La maggioranza di parti cesarei sono di tipo programmato (il 62,2% contro il 37,8% di quelli non programmati). È soprattutto nel Mezzogiorno (69,4%) e tra le donne che partoriscono in strutture private (64,6%), che più spesso il parto con taglio cesareo è programmato. La quota dei cesarei programmati aumenta al crescere dell’età al parto e per le donne che hanno avuto disturbi gravi in gravidanza, ma questi fattori non sono sufficienti a spiegarne l’ampio ricorso.
Tra le primipare la quota di cesarei è poco più bassa della media (33,8%), mentre tra le donne che hanno avuto più di un figlio si attesta al 36,5%.Tale quota raggiunge il 96,5% tra le donne che hanno già partorito con taglio cesareo.

La medicalizzazione nel parto spontaneo

Il parto definito spontaneo (pari al 64,7% dei casi), non è di per sé anche “naturale” cioè privo di qualsiasi intervento medico. Al contrario, l’intervento medico durante il travaglio e il parto è frequente e si concretizza in alcune procedure assistenziali non sempre considerate dalla letteratura internazionale affidabili o raccomandabili. Nel 1985 l’OMS ha rilasciato un documento con raccomandazioni per una adeguata assistenza in gravidanza, durante il travaglio e il parto, nonché una “practical guide” nel 1996 dove espressamente si dichiara che alcune pratiche sono suggerite solo in casi particolari e non sistematicamente, al fine di garantire una nascita sicura per madre e bambino. Tra tali pratiche ricorrono la “rottura artificiale delle membrane”, eventualmente da realizzare solo in uno stadio avanzato del travaglio”; “il monitoraggio elettronico fetale” da eseguire solo in situazioni particolari e nel travaglio indotto”; “l’uso sistematico dell’episiotomia” da evitare, così come “la somministrazione di routine di farmaci durante il travaglio” anch’essa da evitare se non per casi specifici.
Il livello di intervento medico complessivo è alto: il 72,7% delle donne hanno riferito almeno una delle procedure assistenziali.
Le donne che hanno avuto un parto spontaneo e riferiscono di aver subito la rottura artificiale delle membrane (cosiddetta rottura delle acque) sono il 32% e quelle che hanno subito l’episiotomia sono un terzo dei casi (34,7%). Le altre procedure subite sono: il monitoraggio cardiaco fetale continuo nel 45,2% e le pressioni sul ventre in fase espulsiva (tra cui la manovra di Kristeller) nel 22,3%. La somministrazione di ossitocina (farmaco che aumenta la frequenza e l’intensità delle contrazioni) viene dichiarata dal 22,3% delle donne, ma una quota affatto trascurabile (14,2%) dichiara di non sapere se le sia stata o meno somministrata. L’uso di forcipe o ventosa si assesta a livelli molto bassi (4,3%).

In aumento l’allattamento al seno e la sua durata

L’allattamento al seno è rilevante per la salute del bambino e anche della madre. Nella dichiarazione congiunta di OMS/UNICEF (1989), che stabilisce “i dieci passi” da attuare per promuovere, proteggere e sostenere l’allattamento al seno”. In particolare, l’OMS raccomanda l’allattamento esclusivo al seno fino a sei mesi e continuato anche oltre l’anno, se la mamma e il bambino lo desiderano. Tali raccomandazioni sono state recepite nell’ambito di uno specifico accordo tra Ministero della Salute e Regioni nel 2007, e sono state attivate diverse campagne di sensibilizzazione a sostegno dell’allattamento al seno, rivolte agli operatori e a tutte le future mamme. Nel 2013 allatta al seno l’85,5% delle donne che hanno avuto figli nei cinque anni precedenti la rilevazione, (81,1% del 2005).

La durata media del periodo di allattamento passa da 6,2 mesi nel 2000 a 7,3 mesi nel 2005 fino al valore di 8,3 nel 2013. Il numero medio di mesi di allattamento esclusivo è pari a 4,1.

Anche grazie all’attività di promozione rafforzata nell’ultimo decennio, si osservano risultati positivi per l’allattamento materno: il periodo complessivo di allattamento al seno si allunga indipendentemente dell’età della madre e su tutto il territorio nazionale.

La maggiore diffusione dell’allattamento al seno si osserva nel Nord-Est (88,5%), mentre nel Mezzogiorno si registra la quota più bassa (82,8%), ma solo per effetto della minore percentuale di donne che allatta in Sicilia (71,1%), come già evidenziato nelle precedenti rilevazioni del 2000 e del 2005.
La durata media dell’allattamento è più alta nel Centro Italia (9,1 mesi) e tocca il minimo nel Mezzogiorno (8,2 mesi). È differenziata sul territorio anche la durata media dell’allattamento esclusivo, che è bassa nel Mezzogiorno (3,9 mesi) e più elevata nel Nord-est (4,3 mesi), in particolare il valore più alto si registra nella Provincia autonoma di Trento (5) e quello più basso in Sicilia (3,5).

Il livello d’istruzione influisce sensibilmente sulla pratica dell’allattamento al seno: allattano in proporzione maggiore le donne che hanno un titolo di studio più alto (89%); la quota tra le meno istruite è invece sensibilmente più bassa della media (82,2%) benché in forte crescita rispetto al 2005 (76,1%). La durata dell’allattamento al seno cresce con il livello di istruzione.
L’89,4% delle cittadine straniere allatta al seno (contro l’84,6% delle italiane), e per periodi più lunghi (9,2 mesi in media, contro 8,1 delle italiane), con un periodo di allattamento esclusivo leggermente più prolungato delle italiane (4,8 contro 4,4 mesi in media).

Secondo l’OMS provare ad attaccare al seno il bambino subito dopo il parto è un fattore importante per favorire l’allattamento al seno, ridurre la mortalità infantile e proteggere il bambino dal rischio di infezioni. L’indicatore che rileva il “precoce avvio dell’allattamento al seno” considera il numero di bambini con meno di 24 mesi che siano stati attaccati al seno entro la prima ora ed è pari al 39,3% delle donne con figli minori di sei anni.

L’attacco precoce al seno è una pratica maggiormente diffusa nel Nord Italia, e tra chi ha istruzione elevata. Non sembra avere un impatto sulla durata media dell’allattamento esclusivo, ma ne ha sulla propensione ad allattare: chi ha attaccato il bambino precocemente dopo il parto, allatta al seno in una proporzione pari al 94,8%, contro l’84,1% di chi non lo ha fatto.

L’OMS/UNICEF nelle linee guida sull’allattamento materno raccomanda di allattare al seno in maniera esclusiva i bambini almeno nei primi sei mesi. L’indicatore principale proposto dall’OMS tiene conto del numero di bambini di 0-5 mesi che hanno assunto solo latte materno nelle ultime 24 ore escluso qualsiasi altro alimento, anche acqua o tisane. Sulla base di tale definizione per l’Italia la prevalenza si assesta al 42,7% nel 2013.

La quota di bambini allattati in modo esclusivo o predominante, ovvero bambini che oltre al latte materno assumono anche altri liquidi non nutritivi (es. acqua, camomilla, tisane non zuccherate), declina al passare dei mesi, passando da circa il 50% a circa il 40% a 4-5 mesi.
L’allattamento “complementare” che prevede oltre al latte materno un’alimentazione che include qualsiasi altro alimento o bevanda (latte artificiale, latte di origine animale, cibi solidi e semisolidi, ecc.) riguarda in media oltre il 30% dei bambini fino a un anno.

Dopo il sesto mese, sia l’allattamento esclusivo che quello predominante quasi si annullano, per effetto dell’introduzione dell’alimentazione solida o semisolida, che permette un ampliamento del ventaglio dei nutrienti in un momento in cui non è più raccomandato mantenere l’esclusività del latte materno; prima del sesto mese l’alimentazione complementare invece interferisce con l’indicazione OMS/UNICEF di offrire al bambino esclusivamente latte materno.

Poiché l’allattamento al seno costituisce un fattore protettivo contro infezioni e batteri anche per bambini più grandi, l’OMS suggerisce di prolungare l’allattamento al seno anche dopo il primo compleanno. Considerando l’indicatore suggerito dell’“allattamento continuato” tra i 12 e i 15 mesi, circa una donna su 5 continua ad allattare (19,3%).

Il percorso nascita ha un evidente effetto sulla possibilità di allattare al seno: allattano in proporzione minore le donne che hanno avuto un parto cesareo (81,1% contro 87,9%) o un parto pretermine (72,2% contro l’86,6%), anche perché in questi casi più difficilmente si verificano le condizioni favorevoli per iniziare l’allattamento (allattamento precoce e vicinanza del bambino alla madre durante la degenza).
Anche per la durata dell’allattamento e la pratica dell’allattamento esclusivo si osservano percentuali più basse tra quante non hanno avuto un parto naturale.

Il “rooming in”, pratica che prevede che il bambino sia lasciato in stanza con la madre 24 ore su 24 dal momento del parto fino alla dimissione, è raccomandata dall’OMS fin dal 1989. I vantaggi riguardano vari aspetti della salute materno-infantile: favorire il legame madre-bambino, ridurre lo stress del neonato (i bambini piangono meno) e anche favorire l’allattamento al seno.
In Italia, nel 2013, quasi la metà (49,1%) delle donne che hanno partorito nei 5 anni precedenti l’indagine ha usufruito del “rooming in”, così come definito dall’OMS. La pratica è più diffusa al Nord (in particolare Nord est) e poco al Sud. Sono rari i casi di chi non ha potuto avere vicino il bambino, per lo più per motivi di salute della madre o del neonato (5,3%) o perché la struttura dove ha partorito non lo permetteva (8,8%).

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L’impatto delle pratiche post-parto, viste distintamente tra chi ha e non ha avuto un taglio cesareo, rimangono significative: l’attacco precoce al seno, l’esclusività del latte materno nei primi giorni di vita e infine il servizio di “rooming in” sono fattori che favoriscono l’allattamento materno, sia in termini di numero maggiore di donne che allattano sia in termini di durata complessiva dell’allattamento in entrambi i due gruppi di donne. In tutti i casi i livelli di allattamento al seno sono sempre inferiori tra chi ha avuto un parto cesareo rispetto a chi lo ha avuto spontaneo.
La quota di donne che allatta non varia a seconda che si tratti di primipare o meno; invece l’allattamento viene protratto mediamente più a lungo per i figli successivi al primo: la durata complessiva di allattamento passa da 8,4 a 9 mesi in media, e il tempo medio di allattamento esclusivo da 4 a 4,2 mesi in media. (D.M.)

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