Censis: meno finanza e più impresa. Internazionalizzazione, socialità e formazione la formula vincente per l’azienda Italia
Tra le cause del ristagno economico vi è il deficit delle classi dirigenti che si sono ridotte, nel nostro paese, di oltre 100.000 unità tra il 2007 e il 2010, vale a dire il 2% del totale degli occupati e le donne sono solo un quinto del totale.
La loro incidenza tende oltretutto a diminuire. E’ passata infatti dal 21,4% al 20,1%. Poche donne, età media elevata, qualificazione formativa non eclatante, contrazione del numero complessivo delle persone in questo strato sociale indicano una grave riduzione delle possibilità di ricambio che si accompagna alla inadeguatezza delle leadership apicali.
Questo è solo uno dei punti che il Censis ha rappresentato nel suo Rapporto 2011 sulla situazione sociale del nostro Paese. Un quadro che descrive luci e ombre di una società fragile, isolata ed eterodiretta.
Siamo fragili a causa di una crisi che viene dal non governo della finanza globalizzata e, internamente, perché sfiduciati e fatalisti rispetto all’annoso problema del debito pubblico. Isolati perché non internazionalizziamo le nostre politiche e, infine, etero diretti perché fino ad ora è stata l’Europa a dettarci l’Agenda.
Secondo il Censis, la nostra società vive sulle spalle di termini e concetti che nulla hanno a che fare con l’economia della vita quotidiana, termini come Spread, default, rating di cui diventa prigioniera. E proprio questo scollamento dall’economia reale ha dato luogo a una polarizzazione decisionale favorita da un deficit politico dove ”in basso vince il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario”. E’ illusorio pensare che i poteri finanziari producano sviluppo, “perché lo sviluppo si fa soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà”. “Sono anni che questo paese non ragiona sull’agricoltura, sull’industria, sul turismo là dove è possibile fare impresa.
Abbiamo, tuttavia, ancora un solido “scheletro contadino”, metafora che evoca l’origine della nostra cultura basata sulla continua capacità di adattamento e sul primato dell’economia reale nonostante l’attuale trionfo dell’economia finanziaria. Nell’ultimo mezzo secolo, infatti, la nostra crescita è stata il frutto di processi di sviluppo della soggettività individuale che ha visto soprattutto l’incremento dell’iniziativa imprenditoriale di piccola e media dimensione, della vitalità delle diverse realtà territoriali, della coesione sociale, della forza economica e finanziaria delle famiglie, della diffusa patrimonializzazione immobiliare, del radicamento sul territorio del sistema bancario e di una responsabile copertura pubblica e privata dei bisogni sociali. Ma, nonostante ciò, la risposta alla crisi che ci ha investito è stata articolata e differenziata tra le molteplici fasce della composizione sociale e nel prossimo futuro potrebbero essere incubati germi di tensione sociale e di conflitto a causa della tendenza all’aumento delle diseguaglianze e dei processi che creano emarginazione. Solo con l’arricchimento dei rapporti sociali è possibile disinnescare probabili conflitti. E’ importante lo sviluppo di relazioni tra soggetti che fanno parte di una società articolata e complessa, ma che ricercano una partecipazione comunitaria sia nella realtà urbana o agricola che nella realtà virtuale con lo sviluppo dei social network. In questo quadro non può venire a mancare la rappresentanza sociale e politica dove le parti possono contribuire ai processi decisionali ai vari livelli. “Il vuoto lasciato nella fascia intermedia della società dalla polarizzazione fra il mercato e la verticalizzazione finanziaria e i suoi spazi astrali, ma non trasparenti, può essere riempito soltanto dalla rappresentanza”.
Gli italiani sono in recupero di serietà. Il 57,3% degli italiani infatti è disponibile a sacrificare il proprio tornaconto personale per l’interesse del Paese. Ma ben l’81% della popolazione condanna duramente l’evasione fiscale di cui il 43% lo reputa moralmente inaccettabile perché le tasse vanno pagate tutte e per intero, per il 38% invece chi non le paga arreca un danno ai cittadini onesti.
Ricchezza familiare.
Metterla a frutto per ridare forza al potenziale di crescita. Il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile è elevato e in crescita. Nel 1999 era pari a 7,4 volte ed è salito a 8,8 volte. Nonostante l’afflusso di nuove risorse sia in forte restringimento perché, nell’ultimo quinquennio, si è ridotta la propensione al risparmio delle famiglie la ricchezza netta complessivamente posseduta dalle famiglie è cresciuta del 22% in termini reali nel decennio 1999-2009.
Produttività in declino.
Nell’analisi sugli ultimi dieci anni gli occupati sono aumentati del 7,5% mentre il Pil è cresciuto in termini reali solo del 4%. Germania e Francia hanno registrato una crescita del Pil rispettivamente del 9,7% e dell’11,9% che si è accompagnata a incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e del 5,1%. Il quadro del mercato del lavoro mostra particolarità inaspettate. La qualità della crescita occupazionale è cambiata con un aumento dei lavori a bassa o nulla qualificazione a scapito di quelli più qualificati. Salgono di numero gli addetti alle vendite e gli occupati nei lavori non qualificati. Al vertice della piramide sono diminuiti dell’11,5% gli imprenditori e le figure dirigenziali, mentre sono aumentati solo debolmente i liberi professionisti (+2,7%), le figure tecniche intermedie (+3,8%) e quelle amministrative (+0,4%). Certo, nell’ultimo quinquennio è calato il valore della produzione industriale in tutta Europa ma sono aumentati i servizi, +7,8% nella media Ue. Ma in Italia il valore aggiunto dei servizi è invece aumentato pochissimo, solo + 1,3% con, strano ma vero, una flessione proprio nel commercio e turismo, – 2,4%, e una crescita inadeguata nel terziario avanzato, settore chiave, secondo il Censis, dell’economia globale: + 3,5% contro il +6,4% in Francia, il + 10,9% nel Regno Unito, il + 11,2% in Spagna e il + 12,2% in Germania.
La formazione….
A tali tristi numeri sulla nostra competitività si accompagnano le dolenti note sulla formazione e sull’abbandono scolastico dei nostri giovani. Nonostante l’iscrizione in massa alla scuola superiore il tasso di diploma non riesce a superare la soglia del 75% dei 19enni. Il 65% di questi intraprende la carriera universitaria,ma, tra il primo e il secondo anno, il 20% degli studenti abbandona gli studi. E per quanto riguarda l’impiego solo il 76,6% dei laureati riesce a lavorare, una percentuale ben al di sotto della media europea. Senza contare che, nella maggioranza dei casi, i giovani che cominciano un percorso professionale sono sotto inquadrati. Anche l’apprendimento permanente per gli italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni sembra si sia arrestato negli ultimi tempi con un 6,2%, soglia ben lontana da quella quota del 15% posta dalla strategia Europa 2020. La relativa voce di spesa è diminuita di ben 72 punti percentuali, passando dai 16 milioni di euro del 2009 ai 4,4 milioni del 2011.
…e il lavoro.
Tra il 2005 e il 2010, a fronte di un crollo dei lavoratori italiani occupati nelle professioni manuali (-842.000), si registra un aumento praticamente identico dei lavoratori stranieri (+725.000), la cui incidenza passa dal 10,2% al 19% del totale. A ciò si aggiunga che tra le nuove generazioni sta progressivamente perdendo appeal una delle figure centrali del nostro tessuto economico, quella dell’imprenditore. Solo il 32,5% dei giovani tra i 15-35 anni dichiara di voler mettere su un’attività in proprio, meno che in Spagna (56,3%), Francia (48,4%), Regno Unito (46,5%) e Germania (35,2%). Il quadro si complica ancor di più guardando i dati sul lavoro sommerso che passano dall’11,6% del 2003 al 12,3% del totale nel 2010. I più colpiti sono i settori del commercio, delle riparazioni, del turismo e dei servizi alle imprese. Il tessuto imprenditoriale del nostro paese presenta oltretutto un tasso di anzianità aziendale ben superiore a quello dei principali Paesi europei. Lavora nella stessa azienda da più di dieci anni il 50,7% dei lavoratori italiani, contro il 44,6% dei tedeschi, il 43,3% dei francesi, il 34,5% degli spagnoli e il 32,3% degli inglesi. Ma vi sarà anche un problema culturale a spiegare tale fenomeno visto che solo il 23,4% dei giovani risulta disponibile a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare lavoro?
Segnali deboli di ripresa. Lo scontro tra finanza e economia reale.
A fronte di una perdita complessiva di valore del 24%, negli ultimi mesi del 2011, dei titoli azionari della Borsa di Milano si è verificato invece un aumento del 16% delle esportazioni italiane nel primo semestre di quest’anno e il saldo con l’estero del manifatturiero è in attivo per più di 34 miliardi e nei primi due trimestri del 2011 l’indice del fatturato dell’industria è aumentato del 7% trainato soprattutto dalle vendite all’estero. E le imprese, anche con specializzazioni e competenze diverse, fanno rete ugualmente al nord come al sud garantendo così uno dei pochi strumenti di innovazione nel campo delle politiche a sostegno del tessuto produttivo.
Il governo in rete per una rete di imprese.
L’Italia, secondo il Censis, è tra i Paesi europei con le migliori performance relativamente alla disponibilità online di alcuni servizi pubblici fondamentali. La classifica vede l’Italia raggiungere il 100% di performance rispetto all’82% della media europea. Ma se i cittadini italiani fruiscono poco dei servizi online della PA, la situazione è molto diversa per le imprese. Infatti, è dell’84% la percentuale delle azienda che utilizza internet per interagire con la Pubblica Amministrazione, sicuramente meno del 96% della Norvegia ma molto di più del 67% di Spagna e Inghilterra.
Il costo d’impresa.
Tuttavia un neo c’è ed è quello che intacca maggiormente il tessuto imprenditoriale del Paese. Infatti il costo di start up di un’impresa è pari al 18,5% del reddito pro-capite in Italia, il 5,5% in Europa. E le imprese italiane sopportano un carico di costi amministrativi pari a 70 miliardi di euro l’anno, quasi 5 punti percentuali di Pil. Gli interventi di semplificazione amministrativa e la riduzione significativa dei costi sembra facciano parte della volontà politica di questo nuovo governo tecnico che, oltre a reperire miliardi con le riduzioni di spesa generalizzata, dovrebbe soprattutto intervenire significativamente sui costi del
lavoro per rilanciare l’economia, investire sul capitale umano, recuperare politiche di incentivazione degli investimenti esteri nel nostro paese. “E’ necessario crescere in geografia – continua Giuseppe Roma, direttore generale del Censis – per aumentare le nostre esportazioni, crescere nella valorizzazione del nostro brand territoriale caratterizzato, oltre che dal patrimonio artistico, dall’essere italiani il 22% dei prodotti agroalimentari di alta qualità a denominazione territoriale protetta riconosciuti in ambito comunitario.
Economia reale e lunga durata, quindi, sono i punti essenziali per uscire dalla crisi, dalla logica dell’urgenza e per cominciare a costruire una economia solida e duratura”.
Livia Serlupi Crescenzi