Imprenditoria, lavoro e società
Il sistema economico italiano ha tenuto con fatica. I soggetti emergenti sono le donne imprenditrici, i lavoratori stranieri e i giovani che vivono all’estero. Dove puntare per la ripresa? Sul settore dei servizi (anche oltre confine), sull’industria della cultura, sull’edilizia innovativa e sui grandi eventi internazionali
Sono questi i dati salienti riguardanti la situazione lavorativa italiana emersi dal 47° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, divulgato sabato 6 dicembre 2013.
L’imprenditoria e la crisi
La recessione ha portato alla cessazione di oltre 1,6 milioni di imprese tra il 2009 e oggi. Tuttavia, nel piccolo commercio – rappresentato da 770.000 imprese – i negozi di vicinato che operano nell’alimentare pur essendo stati spiazzati dalla grande distribuzione hanno registrato un lieve incremento, vicino all’1% tra il 2009 e la prima metà del 2013.
Il commercio ambulante è cresciuto di quasi l’8% (da 168.000 operatori a quasi 181.000). Gli operatori del commercio online sono quasi 12.000, aumentati del 20% tra il 2009 e oggi.
In questi anni di crisi c’è anche una forma di autodifesa costituita dall’abusivismo commerciale. La quota del commercio abusivo raggiunge il 7,1%, per un totale di circa 68.000 esercizi commerciali, di cui il 52% in aree pubbliche o aree adibite a mercato e il restante 48% in sede fissa. Particolarmente elevato è l’abusivismo tra gli ambulanti, pari al 19,4%.
Il giro d’affari sottratto al commercio regolare è pari a 8,8 miliardi di euro.
Le donne, nuovo ceto produttivo
Il Censis individua nelle donne il nuovo ceto borghese produttivo. Eccone le ragioni: capacità di resistenza e adattamento difensivo, ma anche di innovazione, rilancio e cambiamento. Sono i tratti essenziali delle strategie messe in atto dalle donne nel mondo produttivo.
Alla fine del secondo trimestre del 2013, le imprese con titolare donna erano 1.429.880, il 23,6% del totale. Nell’ultimo anno il saldo è positivo (quasi 5.000 unità in più).
Le imprese femminili sono concentrate nel commercio (28,7%), in agricoltura (16,2%), nei servizi di alloggio e ristorazione (9,2%). Sono prevalentemente di piccole dimensioni (quasi il 69% ha meno di un addetto) e di tipo individuale (il 60% del totale). L’incremento più significativo nell’ultimo anno si registra però per le società di capitali: 9.027 unità in più, +4,2%. E la partecipazione delle donne come libere professioniste al mercato del lavoro ha registrato un incremento del 3,7% tra il 2007 e il 2012.
Gli immigrati hanno successo
Nonostante i fenomeni di irregolarità e i casi di violazioni delle norme di sicurezza, l’impresa immigrata è ormai una realtà vasta e significativa nel nostro Paese. Sono 379.584 gli imprenditori stranieri che lavorano in Italia: +16,5% tra il 2009 e il 2012, +4,4% solo nell’ultimo anno. L’imprenditoria straniera rappresenta l’11,7% del totale. Si concentra nelle costruzioni (il 21,2% del totale) e nel commercio al dettaglio (20%).
Di fronte alla crisi che sta colpendo i negozi italiani, che dal 2009 sono diminuiti del 3,3%, gli stranieri sono invece cresciuti del 21,3% nel comparto al dettaglio (dove gli esercizi commerciali a titolarità straniera sono 120.626) e del 9,1% nel settore dell’ingrosso (21.440).
Oltre 40.000 negozi sono gestiti da marocchini e più di 12.000 da cinesi.
Sono 85.000 gli stranieri che lavorano in proprio e hanno dipendenti italiani e/o stranieri. Negli ultimi quattro anni, mentre gli italiani diminuivano del 3,6%, sono aumentati del 14,3%. Si tratta soprattutto di artigiani, e sono più giovani degli italiani.
I giovani lavoratori italiani all’estero
I giovani, navigatori del nuovo mondo globale. Sono oltre 4,3 milioni i nostri connazionali che lavorano all’estero. Nell’ultimo decennio sono più che raddoppiati gli italiani che si sono definitivamente trasferiti all’estero (dai circa 50.000 del 2002 ai 106.000 del 2012 pari a +115%). Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’incremento si è accentuato (+28,8%). Nel 54,1% dei casi si è trattato di giovani con meno di 35 anni.
Secondo un’indagine del Censis, circa 1.130.000 famiglie italiane (il 4,4% del totale) hanno avuto nel corso del 2013 uno o più componenti residenti all’estero. A questa quota si aggiunge un altro 1,4% di famiglie in cui uno o più membri è in procinto di trasferirsi.
Chi se ne è andato lo ha fatto per cercare migliori opportunità di carriera e di crescita professionale (il 67,9%), per trovare lavoro (51,4%), per migliorare la propria qualità della vita (54,3%), per fare un’esperienza di tipo internazionale (43,2%), per lasciare un Paese in cui non si trovava più bene (26,5%), per vivere in piena libertà la propria vita sentimentale, senza essere vittima di pregiudizi o atteggiamenti discriminatori, come nel caso degli omosessuali (12%).
Nel confronto con l’estero, per loro il difetto più intollerabile dell’Italia è l’assenza di meritocrazia, denunciata dal 54,9%, poi il clientelismo e la bassa qualità delle classi dirigenti (per il 44,1%), la scarsa qualità dei servizi (28,7%), la ridotta attenzione per i giovani (28,2%), lo sperpero di denaro pubblico (27,4%).
Commercio e servizi
L’incidenza del comparto terziario in Italia è pari al 73,7% del PIL (Prodotto Interno Lordo), in linea con il 79% della Francia, il 77,9% del Regno Unito, il 70,6% della Spagna, il 68,7% della Germania. Ma nel nostro Paese è elevata l’incidenza di servizi che danno minore dinamicità all’economia. La quota sul PIL di attività come l’intermediazione immobiliare, i servizi alla persona e la Pubblica Amministrazione raggiunge il 21,9% in Italia e il 18,3% nella media degli altri grandi Paesi europei. Altrettanto vale per il comparto commerciale, del turismo e della logistica, che registra un’incidenza del 20,6% contro una media del 17,9%. Al contrario, nei segmenti più propulsivi legati direttamente o indirettamente ai servizi alle imprese (dalla finanza all’informatica, alla consulenza) la quota italiana sul PIL è del 19,9% contro una media del 23%. Altrettanto vale per un segmento come la formazione e la cultura, dove siamo all’11,3% a fronte di una media del 14,7%. In più, per ogni ora lavorata nel terziario in Italia si producono 32 euro, mentre nell’area dell’euro si sale a 36 euro e soprattutto in Germania a 40 euro e in Francia a 45 euro.
Il nostro terziario soffre di una composizione troppo tradizionale, più al servizio della famiglia che legata ai grandi processi di trasformazione organizzativa dell’impresa, più sostenuta dalla spesa pubblica che da un’autonoma ricerca di competitività. Ma soprattutto opera prevalentemente nel mercato interno, non esporta servizi all’estero ed è scarsamente internazionalizzato.
La cultura è un’industria
Nel 2012 l’Italia – primo Paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco – presentava una dimensione del settore culturale fortemente contenuta se comparata ad altri Paesi europei. Il numero dei lavoratori (309.000, pari all’1,3% del totale) coincide con la metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), ed è molto inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Anche il valore aggiunto prodotto in Italia di 12 miliardi di euro (contro i 35 miliardi della Germania e i 26 miliardi della Francia) contribuisce solo per l’1,1% a quello totale del Paese (meno che negli altri Paesi europei).
Mentre in Spagna (+14,7%), Francia (+9,2%), Germania (+4,8%) il valore aggiunto prodotto in ambito culturale è cresciuto significativamente tra il 2007 e il 2012, da noi l’incremento è stato molto debole, pari all’1%. A impedirne la crescita è la logica di governo del settore e modelli gestionali che ostacolano una maggiore integrazione tra pubblico e privato.
L’edilizia innovativa come leva per la ripresa
È ora di guardare anche in Italia all’economia della trasformazione urbana e territoriale, con i suoi diversi segmenti (grandi opere, rigenerazione urbana, edilizia residenziale, immobiliare, recupero del patrimonio storico-artistico) non più come un settore tradizionale in crisi di fatturato e occupazione, ma come un ambito in cui il ripensamento dei modelli può creare enormi opportunità.
Dal 2007 al 2012 le compravendite di abitazioni sono diminuite del 45%, nel 2013 il calo potrebbe
arrivare al 50% (400.000 abitazioni vendute). Ma le famiglie che hanno manifestato l’intenzione di acquistare casa sono state 907.000 e solo il 53,5% è riuscito a realizzare l’acquisto. Infatti, dal 2007 al 2012 il risparmio netto annuo per famiglia è passato da 4.000 euro a 1.300 euro.
Il comparto in affitto riguarda oggi il 14,9% delle famiglie. I nuclei giovani sono il 23,8% degli inquilini. La parte più consistente degli inquilini è localizzata nel Mezzogiorno (39,2%) e nelle grandi città, con oltre 100.000 abitanti (31,4%). Il 40,8% ha un reddito netto mensile di 1.000 euro e un ulteriore 44,1% compreso fra 1.000 e 2.000 euro.
Le opportunità offerte dai grandi eventi internazionali
Cresce nel Paese l’attenzione attorno all’Expo di Milano, che aprirà i battenti il 1° maggio 2015 e, nelle attese, dovrebbe portare in sei mesi oltre 20 milioni di visitatori.
Il dibattito sui grandi eventi si riaffaccia anche in relazione all’ipotesi di una candidatura italiana alle Olimpiadi 2024, a fronte di buone chance di una localizzazione europea dopo gli appuntamenti di Rio 2016 e Tokyo 2020.
Che ci sia voglia nel Paese di scommettere sui grandi eventi lo dimostra anche la competizione intrapresa da numerosi comuni italiani per la selezione della città Capitale europea della cultura 2019, con 21 candidature iniziali.
La nicchia dei servizi professionali
La bilancia dei pagamenti dei servizi legali e di consulenza e di quelli pubblicitari e di ricerche di mercato presenta un deficit di 2 miliardi di euro (in peggioramento) originato, più che dall’ampiezza del flusso di import (4,8 miliardi di euro, sostanzialmente in linea, tenuto conto delle dimensioni economiche, con quello di altri Paesi europei), dalla modestia di quello dell’export: appena 2,8 miliardi di euro, che collocano l’Italia all’ottava posizione tra i Paesi dell’Unione Europea, preceduta anche dalla Polonia. Ma tra il 2009 e il 2012 l’export italiano dei servizi di ingegneria, architettura e altre consulenze tecniche è stato protagonista di una crescita, risalendo da meno di 1 miliardo di euro a più di 2,5 miliardi e portando il saldo settoriale a un attivo record di 1,2 miliardi. La crescita triennale è del 165% e il dato del 2012 supera anche i valori pre-crisi.
La riduzione dei consumi
L’economia risente della crisi e della mancanza di fiducia nel sistema da parte delle imprese e delle famiglie che hanno modificato i propri consumi. Basta con gli sprechi e con gli eccessi: le famiglie italiane optano per una nuova sobrietà. Il 76% degli italiani dà la caccia alle promozioni, il 63% sceglie gli alimenti in base al prezzo più conveniente, il 62% ha aumentato gli acquisti di prodotti di marca commerciale, il 68% ha diminuito le spese per cinema e svago, il 53% ha ridotto gli spostamenti con auto e scooter per risparmiare benzina, il 45% ha rinunciato al ristorante.
Nonostante ciò, la pressione fiscale e le spese non derogabili comportano uno stato di tensione continua. Per il 72,8% delle famiglie un’improvvisa malattia grave o la necessità di significative riparazioni per la casa o per l’auto sono un serio problema. Il pagamento di tasse e tributi (24,3%), bollette (22,6%), rate del mutuo (6,8%) mette in difficoltà una quota significativa di italiani.
Sono quasi 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto dalle rispettive reti familiari una forma di aiuto nell’ultimo anno. E 1,2 milioni di famiglie, che non sono riuscite a coprire le spese con il proprio reddito, hanno fatto ricorso a prestiti di amici.
La politica che non aiuta
Il ritorno del decisionismo dal centro, ovvero il Governo (che dovrebbe occuparsi di amministrare il denaro pubblico) decide per tutti. La quota dei disegni di legge provenienti dal Parlamento nelle due ultime legislature è pari al 94,4%, contro il 4,4% del Governo: la quota delle leggi approvate si
ferma però al 22,2% per il Parlamento e raggiunge il 76,6% per quelle promosse dal Governo. L’indice di approvazione delle leggi è incontrovertibile: 0,8% per il Parlamento (superato in termini di efficacia anche dalle Regioni, che presentano un indice di finalizzazione del 5,1%) e 62,2% per il Governo.
Il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato alcun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza.
Da una parte dunque l’inconcludenza del Parlamento, dall’altra il disinteresse dei cittadini: al centro, vincente, un Governo sempre più decisionista e autoritario.
Una società sciapa
Il Censis definisce quella italiana come “una società sciapa e infelice in cerca di connettività”. E spiega che il crollo non c’è stato, ma troppe persone scendono nella scala sociale.
I nuovi spazi imprenditoriali e occupazionali si aprono in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Il sistema ha bisogno e voglia di tornare a respirare, oltre le istituzioni e la politica.
Oggi la società ha bisogno e voglia di tornare a respirare per reagire a due fattori che hanno caratterizzato l’anno.
Il primo fattore è lo stato di sospensione da «reinfetazione» (più che tornare indietro, tornare agli albori pre-esistenziali per trovare una nuova sicurezza, quella del ventre materno) dei soggetti politici, delle associazioni di rappresentanza, delle forze sociali nelle responsabilità del Presidente della Repubblica. Ma la reinfetazione, in nome del valore della stabilità, riduce la liberazione delle energie vitali e implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti che, a diverso titolo e con differenti funzioni, dovrebbero concorrere allo sviluppo, che è sempre un processo di molti.
Il secondo fattore è la scelta implicita e ambigua di “drammatizzare la crisi per gestire la crisi” da parte della classe dirigente, che tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre.
Nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione di incertezza senza prospettive di élite.
Nessun crollo
In realtà il crollo atteso da molti non c’è stato. Negli anni della crisi abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza.
C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari).
E oltre la sopravvivenza? Oggi siamo una società più “sciapa”: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della comunicazione di massa.
E siamo malcontenti, quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Troppa gente non cresce, ma scende lungo la scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti.
Le energie pulsanti
Quel fervore che ha fatto da motore dello sviluppo degli ultimi decenni si intravede, tuttavia, nella lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza. Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione.
Le nuove opportunità imprenditoriali
Ci sono poi due grandi ambiti che consentirebbero l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni occupazionali. Il primo è il processo di radicale revisione del welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa «di tasca propria» e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria).
Il secondo ambito è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani «artigiani digitali».
L’unione fa la forza… Se i politici ci lasciano stare
Il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi.
È vero che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento. Oggi le istituzioni non possono fare connettività, perché sono autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo.
E la connettività non può lievitare nemmeno nella dimensione politica, che è più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide (dalla selva dei decreti legge all’uso continuato dei voti di fiducia).
Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi.
Sarebbe cosa buona e giusta fargli «tirar fuori il fiato».