Pubblicato il 6 dicembre 2019 il nuovo Rapporto di chiusura di un decennio critico. Focus su lavoro e imprenditoria
Un decennio vacuo, con poche iniziative e poche responsabilità collettive. Si potrebbe definire così questo lungo periodo di tempo in cui, nonostante i vari proclami di stampo elettorale, la crisi dell’occupazione e dei redditi da lavoro e da impresa non si è certo arrestata.
Secondo gli analisti del Censis però si intravvedono delle reazioni positive, di contrapposizione a una prospettiva di declino. “La società italiana ha guardato a lungo inerte al cedimento delle sue strutture portanti. A questo cedimento, puntellando sé stesso, ora il Paese sta cercando una soluzione” si legge nelle considerazioni generali del Report.
Secondo il Censis l’anno che si va chiudendo segna “l’inizio di un diverso modo di osservare l’orizzonte e rafforza l’impressione che l’adeguamento verso il basso non può proseguire senza limiti, senza porre argini o individuare punti di sostegno per frenare lo sgretolamento, per provare ad ancorarsi e tentare un cambio di direzione”. E, ancora una volta, questa resistenza, questa resilienza (per usare una parola tanto in voga negli ultimi tempi) è messa in atto dalle imprese.
“Una prima piastra di sostegno” si legge ancora nel Report “è nella dimensione manifatturiera del nostro sistema produttivo e nella sua capacità di innovare e, almeno in parte, trainare la crescita”.
Si parla delle fabbriche italiane, della qualità dei loro prodotti, della loro capacità competitiva. E si parla della crescita del prodotto interno e dei consumi, “paragonabile alle migliori regioni europee”.
Senza dimenticare la “fitta rete di incubatori e acceleratori di imprese innovative nei quali diverse migliaia di giovani tentano una esperienza imprenditoriale, dove una buona intuizione può diventare una buona impresa”.
Importanti per il sistema Italia, per l’attrazione di turisti e dunque per il rilancio dell’economia, ogni singola fiera o progetto culturale che i territori sono capaci di realizzare. Contemporaneamente ci sono alcuni segmenti produttivi capaci di resistere alla crisi e rilanciarsi affermando un primato mondiale per design, tecniche costruttive, sapienza artigianale applicata su scala industriale, in nicchie dell’export mondiale nella produzione di super yacht, di vernici e materiali innovativi per l’edilizia, di componentistica minuta ma ad alta tecnologia per le automobili o l’aerospazio, per citarne solo alcuni.
Tutto nelle mani dei lavoratori e degli imprenditori che – non dimentichiamolo mai – sono lavoratori essi stessi e, in più, danno lavoro ad altre persone ma che, per via di una strana presa di posizione politica, sembra siano bersaglio di critiche negative e di sicuro vittime di persecuzioni vessatorie da parte della PA, come ci dimostra la lunga lista di suicidi e di persone e famiglie distrutte da pretese illegittime e abusi di potere contro i quali non si riesce a venire a capo. “I limiti della politica attuale sono nella rassegnazione a non decidere. Tante, troppe riforme strutturali sono state annunciate, ma mai concretamente avviate: nella scuola, nella giustizia, nella sanità, nella fiscalità, nel quadro istituzionale” si legge ancora nel Rapporto. “Lo scenario nel quale ci muoviamo è affollato da non decisioni: sul contenimento della pressione migratoria, sulla digitalizzazione, sulla politica tributaria, sulle concessioni e sui lavori per le grandi infrastrutture di rete, sui servizi idrici o per i rifiuti, sulla collocazione delle scorie nucleari. Non per aver scelto, ma per non averlo fatto, la politica ha fallito e ha smarrito sé stessa”.
Il lavoro degli italiani
Il capitolo «La società italiana al 2019» del 53° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese è molto chiaro: l’incertezza è lo stato d’animo dominante (per il 69%). Nonostante il bluff dell’aumento dell’occupazione, in realtà non sono stati prodotti né reddito né crescita, infatti abbiamo 959.000 unità di lavoro equivalenti in meno rispetto al 2007 e un aumento del 71,6% di part time involontari per i giovani. E la nuova occupazione creata negli ultimi anni è stata segnata da un andamento negativo di retribuzioni e redditi. Oggi il 69% degli italiani è convinto che la mobilità sociale è bloccata. Il 63% degli operai crede che in futuro resterà fermo nella condizione socio-economica attuale, perché è difficile salire nella scala sociale. Il 64% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme invece la scivolata in basso.
Secondo il 74% degli italiani nei prossimi anni l’economia continuerà a oscillare tra mini-crescita e stagnazione, e il 26% è sicuro che è in arrivo una nuova recessione. Contando di fatto solo sulle proprie forze, gli italiani hanno quindi messo in campo stratagemmi individuali per difendersi dalla “scomparsa del futuro”: il severo scrutinio nei consumi, il cash accumulato in chiave difensiva, anche il «nero» di sopravvivenza.
Più occupati, dunque, ma meno lavoro? il bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita. Rispetto al 2007, nel 2018 si contano 321.000 occupati in più (+1,4%… in 10 anni!).
La tendenza è continuata anche quest’anno: +0,5% nei primi sei mesi del 2019.
Ma cosa si nasconde dietro questi bei segni “+”? Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007-2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è cresciuto di 2 punti.
Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo.
Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007.
Così oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007 e parallelamente le unità di lavoro equivalenti sono 959.000 in meno.
Nello stesso periodo le retribuzioni del lavoro dipendente sono diminuite del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno.
I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono 2.941.000: un terzo ha meno di 30 anni (un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai (il 79% del totale).
Sarà forse per questo che in un decennio più di 400.000 cittadini italiani di età tra i 18 e i 39 anni hanno abbandonato l’Italia, cui si sommano gli oltre 138.000 giovani con meno di 18 anni.
Dal 2015 il Mezzogiorno ha perso quasi 310.000 abitanti (-1,5%), contro un calo della popolazione dello 0,6% nell’Italia centrale, dello 0,3% nel Nord-Ovest, dello 0,1% nel Nord-Est e dello 0,7% a livello nazionale.
Gli italiani che risiedono negli altri 27 Paesi della Ue sono 2.107.359 (e i cittadini della Ue che vivono in Italia sono 1.583.169): sono aumentati del 12,2% negli ultimi tre anni e rappresentano il 41,2% degli oltre 5 milioni di italiani che vivono all’estero.
Oggi l’Italia che attrae, e che cresce anche in termini demografici, è fatta di un numero limitato di aree. Su 107 province, 21 non hanno perso popolazione: 6 sono in Lombardia, 9 nel Nord-Est. In quattro anni Bologna ha guadagnato 10.000 residenti, l’area milanese (3,2 milioni di abitanti) ha aumentato la sua popolazione dell’equivalente di una città come Siena (53.000 abitanti in più), cui si aggiungono i quasi 10.000 residenti in più della contigua provincia di Monza. Nell’area romana invece è crollato l’arrivo di stranieri (20.000 in meno tra il 2012 e il 2018) e sono diminuite le iscrizioni dal resto del Lazio e dalle altre regioni, a riprova dell’appannamento dell’appeal della capitale.
Ma collegato al problema lavoro c’è anche un problema sociale di cui si parla troppo poco: in Italia abbiamo pochi laureati, frequenti abbandoni scolastici, bassi livelli di competenze tra i giovani e gli adulti.
Il 52,1% dei 60-64enni si è fermato alla licenza media (a fronte del 31,6% medio nell’Unione europea). Ma anche tra i 25-39enni il 26,4% non ha conseguito un titolo di studio superiore (contro il 16,3% medio della Ue). Il 14,5% dei 18-24enni (quasi 600.000 persone) non possiede né il diploma, né la qualifica e non frequenta percorsi formativi.
Nel 2018 ha partecipato ad attività di apprendimento permanente solo l’8,1% della popolazione 25-64enne (appena il 2% di chi possiede al massimo la licenza media).
L’insufficiente comprensione della lingua inglese parlata riguarda il 64,3% degli studenti dell’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado. Il 68% degli adulti non possiede sufficienti conoscenze finanziarie di base.
Le pressioni sul ceto produttivo
Gli analisti del Censis parlano di “calvario quotidiano” per riferirsi ai fattori di pressione sul ceto medio produttivo. Della Pubblica Amministrazione si fida solo il 29% degli italiani. Un motivo ci sarà! Nell’Unione europea (valore medio 51%) peggio di noi solo Grecia e Croazia.
Alla fine del 2018 si quantificano in 26,9 miliardi di euro i debiti commerciali residui delle amministrazioni pubbliche fatturati nell’anno, scaduti e non pagati.
Per il 60% dei commercialisti le loro aziende clienti subiscono ritardi nella riscossione di crediti dalla PA.
Oltre a questi elementi negativi, in Italia da anni, nonostante si parli di semplificazione, viviamo sepolti da un eccesso di burocrazia, con troppi adempimenti, autorizzazioni e controlli che intralciano il rapporto tra imprese, lavoratori, professionisti, ecc. e Pubblica amministrazione. Figuriamoci che invece di diminuire la burocrazia in un anno è aumentata del 10%.
Per i cittadini interpellati dal Censis una soluzione potrebbe essere un ridimensionamento della PA, ottenendo in questo modo almeno una riduzione dei costi e degli oneri burocratici (38,2%).
Gli oneri amministrativi introdotti ed eliminati dalle amministrazioni pubbliche nel corso del 2018 hanno causato un costo calcolato in 52,7 milioni di euro per le nuove disposizioni normative e in 15 milioni di euro quello per gli oneri eliminati. Il saldo finale è stato dunque di 37,7 milioni di euro che si sono aggiunti al volume complessivo degli oneri amministrativi.
Oggi l’Italia gioca in Europa il proprio destino economico, esportando nei Paesi della Ue quasi 91 milioni di tonnellate di merci l’anno (il 60,9% dei quantitativi complessivamente venduti all’estero), per un controvalore di 260 miliardi di euro, cioè il 56,3% del valore totale delle merci esportate. Come a dire: imprenditori, per sopravvivere avete bisogno dell’estero.
I due settori dove cresce l’occupazione
Il settore del turismo in Italia continua a rivestire il ruolo di grande contenitore dell’occupazione e di driver fondamentale per l’economia. Tra il 2017 e il 2018 il contributo diretto del settore al Pil è aumentato dell’1,9%, con un valore economico di poco meno di 96 miliardi di euro. Il contributo diretto in termini di occupazione sfiorava il milione e mezzo di addetti nel 2017 e per il 2018 si stima un incremento dell’1,3% (circa 20.000 in più). Considerando oltre al contributo diretto anche gli impatti indiretti e indotti (investimenti del settore, spesa pubblica per promozione, marketing, servizi di sicurezza e sanitari, spesa diretta e indiretta del personale dedicato alle attività di viaggio e turismo), il valore economico del turismo in Italia raggiunge i 213 miliardi di euro nel 2017, pari al 13% del Pil. Secondo le stime, supera i 227 miliardi di euro nel 2018, con una crescita dell’1,8%. L’incremento dell’occupazione è dell’1,4% e il perimetro allargato del turismo include oggi 3.443.000 occupati. Secondo le proiezioni a dieci anni del valore economico e dell’occupazione, nel 2028, con un tasso di crescita medio annuo dell’1,9%, il contributo diretto potrebbe raggiungere i 116 miliardi di euro, con poco meno di 1.800.000 occupati. Se si aggiungono gli impatti indiretti e indotti, si arriverà a 267 miliardi di euro e a una occupazione di quasi 4 milioni di addetti.
Il settore Ict in Italia ha raggiunto nel 2018 i 62 miliardi di euro di valore aggiunto, con un incremento rispetto al 2016 di 3,6 miliardi di euro. Il 91,7% del valore aggiunto ha origine nelle attività dei servizi, di cui la parte prevalente (il 55,7%) riguarda attività di programmazione, consulenza, data processing, portali web. Si riduce invece la capacità di creare valore delle telecomunicazioni, che perdono 1,2 miliardi di euro in due anni. Tra il 2016 e il 2018 il settore Ict ha aumentato la base occupazionale di 31.000 addetti (+4,8%). In totale il settore occupa oggi 677.000 persone. Anche in questo caso sono le attività di servizio legate alla programmazione e alla consulenza a segnare il risultato più importante, con un aumento del 7,4% nei due anni, cioè 32.000 addetti aggiuntivi.
Nello stesso periodo le telecomunicazioni hanno subito invece un ridimensionamento di circa 800 addetti. Nel 2018 il 56,4% delle imprese italiane ha dichiarato di aver effettuato investimenti per adottare sistemi di sicurezza informatica: valori più alti tra le imprese manifatturiere (58,8%) e tra le imprese a maggiore dimensione, con almeno 500 dipendenti (86,6%).
Professionisti sempre più poveri. Il gap femminile
Tra il 2013 e il 2017 i redditi medi annui dei liberi professionisti si sono ridotti in termini reali del 2,9%, passando da 34.678 euro in media a 34.022 euro, con una perdita di 656 euro.
Del tutto diversa è invece la situazione dei professionisti dipendenti (iscritti alle Casse previdenziali delle professioni), che guadagnano in termini nominali circa 5.000 euro all’anno nel periodo considerato (+7%).
Il gap di genere appare ancora netto: la differenza di reddito tra i professionisti uomini e le donne è di circa 15.000 euro (si posizionano rispettivamente al 122% e al 78% del reddito medio).
La distanza tra il reddito medio e quello di un professionista con meno di trent’anni si avvicina a 21.000 euro. La differenza tra un professionista del Nord e uno del Mezzogiorno supera i 14.000 euro a favore del primo.