Eventi socio-culturali

Ridurre eccedenze e spreco nella filiera agroalimentare

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Le strategie a disposizione delle imprese dell’intera filiera, dal produttore al distributore al rivenditore, per evitare le eccedenze dando una mano all’ambiente, alla società e risparmiando denaro

In occasione della 41^ Giornata mondiale dell’Ambiente, dedicata alla relazione tra cibo e risorse naturali, celebrata lo scorso 5 giugno, l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria) ha organizzato un incontro per individuare le maggiori criticità presenti dal momento del raccolto a quello della vendita al cliente finale lanciando possibili soluzioni per ridurre lo spreco. All’appuntamento del 5 giugno a Roma erano presenti, tra gli altri, il nuovo Commissario INEA, Giovanni Cannata, e il Viceministro alle Politiche agricole, alimentari e forestali Andrea Olivero.

Il focus dell’incontro è stato quello di offrire informazioni utili alle imprese dell’industria agroalimentare e in particolare quelle facenti parte della filiera dei prodotti ortofrutticoli; utili perché le perdite che subiscono queste ultime rappresentano il 4,5% del totale dei prodotti commestibili: molti prodotti raccolti in campo non arrivano mai a fine percorso in quanto sono persi o scartati entrando a far parte del triste mondo degli sprechi alimentari. Si tratta di 8,7 miliardi di euro di valore perso poiché a tanto ammonta il prezzo che avrebbe il cibo che viene così sprecato. Per vari motivi: perché la produzione è troppo elevata e il mercato non riesce ad allocarla (eccedenze); perché non è ben conservata e si deteriora; perché un’ondata di maltempo l’ha rovinata; perché c’è stata una patologia; perché durante il trasporto si è schiacciata; ecc. Fatto sta che il residuo, ovvero la differenza tra la produzione e la raccolta di questi prodotti, è di ben 13.403.789 quintali (dato 2011).

Dal punto di vista del produttore, ovvero del coltivatore, la maggior parte degli ortaggi che si perde è relativa a quelli coltivati in pieno campo, ma anche i prodotti coltivati in serra hanno le proprie belle perdite. Come spiega Francesca Giarè dell’INEA, ci sono alcuni prodotti che hanno maggiori perdite e altri meno. In particolare, le fave sono quelle che si “perdono” di più, seguite al secondo posto a pari merito da fragole e carciofi. Gli ortaggi più “resistenti” invece sono l’aglio e lo scalogno.

carlo-alberto-pratesiPerché tanti di questi prodotti non riescono ad arrivare sui banchi di vendita? Può dipendere dall’annata cattiva per cui il prodotto ad esempio può non avere più un bell’aspetto e non è possibile esporlo per essere venduto: il consumatore di oggi è abituato a comprare solo bella frutta e begli ortaggi; come ha ricordato Carlo Alberto Pratesi, docente marketing dell’università Roma Tre, ci sono tante regole assurde sulle dimensioni minime obbligatorie dei prodotti ortofrutticoli che la gente non acquista più ad esempio un frutto se è piccolo perché ormai abituata a vedere esposti solo frutti enormi. E parlando di frutta, la dott.ssa Giarè, curatrice della ricerca presentata in questa occasione, informa che le perdite di frutta fresca nel 2013 sono aumentate di molto e che le variazioni negative tra produzione raccolta e venduta dall’agricoltore sono alte soprattutto per le ciliegie e le susine. Ad incidere sono fattori climatici ed economici, che variano a seconda del territorio. Ad esempio il Kiwi nel Lazio (che ne è il maggior produttore, fornendo il 35% della produzione nazionale) ha una perdita dell’8% mentre quello prodotto nelle altre regioni ha una perdita notevolmente minore; stessa cosa per quanto concerne la produzione di fragole, che nel Lazio si perde per il 10-14% mentre nelle altre regioni la media delle perdite è molto più bassa e costante nel tempo.

oliveroIl viceministro alle politiche agricole, Andrea Olivero, però punta il dito anche contro una politica dei prezzi errata: “negli decenni passati” dice “quando abbiamo calmierato i prezzi facendo distruggere i prodotti agricoli, abbiamo compiuto un vero disastro”. E accusa anche la distribuzione, che non è equilibrata. Il risultato di queste azioni è che il mondo agricolo oggi è visto in modo negativo, come frutto di imprenditori che distruggono il cibo per far aumentare i prezzi ma siamo stati noi politici a provocare la nascita di una logica speculativa.
Adesso occorre rimediare, fare politiche diverse che sblocchino l’economia di questo settore ma che portino a garantire dei prodotti italiani di qualità, salubri e competitivi sul mercato nazionale aggiunge il Viceministro. Basta dunque con questo meccanismo perverso della creazione dei prezzi.
D’altronde, come afferma anche il Commissario INEA Giovanni Cannata, siamo immersi in un quadro in evoluzione e spetta anche all’agricoltore affrontare compiti nuovi. Oggigiorno l’agricoltore non può non pensare alla sostenibilità ambientale (la produzione agricola ha un peso importante per quanto riguarda l’immissione nell’atmosfera di CO2 e dunque di inquinanti) o farsi carico dell’agricoltura sociale. Se proprio nella data scelta del 5 giugno come giornata dell’ambiente, nell’anno 1972 è nato l’ambientalismo, oggi – a distanza di 40 anni – finalmente il problema della tutela ambientale è stato recepito anche dagli agricoltori, ricorda il Commissario.

andrea-segreAndrea Segrè, dell’università di Bologna, uno dei massimi studiosi del tema dello spreco delle risorse agroalimentari, offre alcuni spunti per trovare le soluzioni al problema. Spiega che sullo spreco domestico, cioè quello del consumatore, è difficile operare a eccezione di una campagna informativa forte che parta dalle scuole affinché gli stessi studenti portino in casa una mentalità più ricettiva del problema, più etica, grazie all’educazione alimentare e all’educazione ambientale, in contemporanea. Però sullo spreco che avviene tra gli anelli della catena del ciclo che va dalla produzione alla vendita al cliente finale si può agire. In un piano in 10 punti presentato al Ministero proprio in occasione della giornata dell’ambiente, si parla proprio del recupero degli sprechi, che porta a un riequilibrio anche attraverso l’ottica del dono: pomodori, agrumi, latte vanno distrutti per sostenere i prezzi? Vuol dire che nel mercato qualcosa non va, non funziona bene il meccanismo adottato finora.

E l’INEA, attraverso la voce di Francesca Giarè, spiega che le stesse aziende sono parte del problema, perché non riescono a fare rete: in Italia migliaia di piccoli produttori agricoli non riescono a mettersi insieme, a collaborare per affrontare i propri problemi di organizzazione. Infatti in Italia gli agricoltori non hanno capacità organizzative adeguate e non riescono a comprendere le dinamiche effettivamente presenti sul mercato. Le carenze ci sono ancora poi anche dal punto di vista etico, e a queste si sommano in alcuni casi la mancanza di infrastrutture adatte al trasporto rapido delle merci deperibili. La soluzione per evitare gli sprechi e le perdite (anche quelle di denaro) non sarebbe così complicata: i produttori dovrebbero aggregarsi, non restare piccoli imprenditori agricoli isolati, e aggregarsi non solo fra loro ma anche con i consumatori finali e con le tante associazioni esistenti – come il banco alimentare ad esempio – per collocare i prodotti rimasti.
A questa forma di collaborazione va collegata una forma di informazione e di formazione che dovrebbero fare le istituzioni nei confronti degli agricoltori. In particolare, gli SSA (Servizi di Sviluppo Agricolo) dovrebbero fornire una consulenza anche sugli aspetti organizzativi e sociali delle imprese agricole.

cristiana-peanoCristina Peano, dell’università di Torino, porta i risultati di un’interessante caso di ricerca sul campo, che è riuscito a trovare una soluzione al problema degli sprechi nella filiera. Considerando che proprio durante la lavorazione e lo stoccaggio dei prodotti ortofrutticoli avviene il 44% delle perdite di frutta e vegetali, dunque dal momento in cui viene raccolto c’è una perdita ulteriore che si aggiunge a quella del prodotto colto nei campi (o nelle serre).
Il punto critico è quello della conservazione, soprattutto nell’ambito dell’ortofrutta fresca. Lo è perché la conservazione dipende dall’ambiente e dunque dalla temperatura e dal grado di umidità ma anche dal comportamento delle persone che se ne occupano, persone che troppo spesso non conoscono affatto i metodi migliori di conservazione relativi a ciascun prodotto.
Così, è possibile che per un errore di chi si occupa dello stoccaggio o del magazzinaggio i prodotti vengano attaccati dai funghi (che nascono a certe temperature e a certi gradi di umidità) che portano a patologie che fanno “morire” l’intera produzione, che non arriverà mai sui banchi di vendita.

La prof.ssa Peano ha presentato il caso di una cooperativa di piccoli produttori che voleva affrontare i mercati esteri con la propria produzione di fragole e mirtilli (quelli giganti, italiani, molto richiesti dall’Europa del Nord). Prodotti altamente deperibili, la cui richiesta è di quantitativi ridotti ma costante, fatto che rende difficile mantenerli freschi a lungo. Motivo? Vanno conservati nelle celle frigorifere ma le celle non possono aprirsi perché una volta aperte si deve prelevare l’intera produzione; se si lascia della frutta all’interno della cella una volta aperta marcisce. La soluzione trovata è stata quella di creare un ambiente con atmosfera modificata, controllata, e di imballare la frutta separatamente, in piccole dosi. Si è utilizzata dapprima la plastica, ma da quest’anno si è trovato un materiale biodegradabile e compatibile. In questo modo la cella si poteva aprire e prelevare solo la quantità occorrente di fragole (e mirtilli), quella ordinata, poi richiudere e continuare la conservazione di quelle rimaste. Così facendo si è limitata la perdita in modo strabiliante: addirittura nessun frutto perduto per 45 giorni, e solo una bassa percentuale per i restanti giorni, arrivando così a mantenere la frutta fresca per ben 60 giorni.

Ma anche la distribuzione deve permettere un packaging che prolunghi la cell-life, deve cioè riuscire a mantenere la quantità e la qualità del prodotto fino alla vendita sui banchi. Come? Assicurando sempre un’atmosfera controllata nonché la biodegradabilità e l’eventuale compostabilità. Perché? Perché così facendo se il prodotto resta invenduto sui banchi lo si può buttare con il proprio contenitore essendo tutto biodegradabile. E stessa cosa può fare l’acquirente, in caso fosse costretto a buttare la frutta o l’ortaggio acquistato.
Un altro punto da non sottovalutare è la possibilità che durante il trasporto la merce venga schiacciata e rovinata. Il polistirolo espanso, tanto vilipeso, in realtà permette di diminuire fino all’8% lo scarto di prodotto dovuto al trasporto. Dunque di non sprecare cibo e di non causare danni economici agli operatori della filiera.

Anche la professoressa Peano pone l’accento sulla necessità di essere informati. La maggior parte delle perdite economiche e degli sprechi alimentari si ha proprio perché anche i buyer e i trasportatori non conoscono le tecniche di conservazione del prodotto. Così, per semplice ignoranza, non riescono ad affrontare il problema. L’educazione e la comunicazione non vanno dirette pertanto solo ai consumatori finali ma proprio ai buyer e agli altri agenti della filiera.

Secondo Carlo Alberto Pratesi, docente di marketing dell’Università Roma Tre, anche l’ultimo anello della catena, il rivenditore, va responsabilizzato. Le tecniche di vendita aggressive, il marketing e la pubblicità sempre più invadenti e pervasive, portano i consumatori ad acquistare più di quanto occorra loro per il sostentamento. Infatti non bisogna dimenticare che il cibo serve a questo e non a dimostrare – come si fa attualmente nella nostra società consumistica – che si è ricchi o benestanti grazie alla quantità di cibo che ci possiamo permettere di sprecare.
Un esempio fatto dal docente è quello della pubblicità dell’Alka Seltzer, la pasticca effervescente idrosolubile composta da bicarbonato di sodio. Nel momento in cui i produttori avevano saturato il mercato e non era più possibile aumentare le vendite, ebbero un’idea: nella pubblicità fecero vedere all’interno di un bicchiere d’acqua non più una pastiglia che si scioglieva ma due. La pubblicità ebbe subito effetto e le vendite raddoppiarono. Questo spiega l’influenzabilità degli esseri umani, la loro “sottomissione” ai messaggi pubblicitari, diretti, indiretti o subliminali che siano.
Un’ulteriore prova la si è avuta durante una ricerca durata diversi mesi in cui si chiedeva, all’uscita dei supermercati, ai clienti di mostrare la loro lista della spesa e lo scontrino: si è così appurato che le persone acquistavano molti più prodotti di quelli che dovevano comprare nel momento in cui erano entrati nel negozio. Anche in questo caso la ragione sta nel potere occulto delle strategie di marketing: la luce posizionata in un certo modo, la musica all’interno del supermercato, l’esposizione sovrabbondante delle merci, fanno da traino al consumo, da attrazione invincibile per il cliente, che così occorre molto più di quanto gli occorre. Se a questo aggiungiamo le offerte tre per due, il quantitativo maggiore che si mette oggi nelle confezioni, lo spreco è assicurato.

Il cibo che si spreca è quello che va a finire in pattumiera (ben 1,3 miliardi di tonnellate l’anno di cibo ancora perfettamente commestibile – pari a un terzo della produzione mondiale) ma anche quello che va a finire nel nostro girovita. La ciccia in più in parole povere. E ci provoca danni alla salute non indifferenti: da quelli cardiovascolari – prima causa di morte – all’aumento del colesterolo all’obesità.

Lo spreco insomma ha un impatto ambientale, un impatto economico e un impatto sulla nostra salute. E anche un impatto sociale, se consideriamo che nel mondo c’è un miliardo di persone che non riesce ad alimentarsi e resta denutrito mentre ben oltre un miliardo di persone sono quelle obese. Naturalmente non si può spostare il prodotto alimentare fresco sprecato dalle persone più nutrite a quelle meno perché ovviamente deperirebbe ma si può insegnare a cambiare i metodi di coltivazione, responsabilizzando sia chi ha più prodotti agricoli che chi ne ha meno. Senza dimenticare però un fattore importante: lo spreco fa comodo a certe imprese, che hanno forti interessi economici a far sì che le persone acquistino più del necessario.
Ribelliamoci.

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