Mancano i servizi per l’infanzia e per le persone non auto-sufficienti. Centinaia di migliaia le donne costrette, per questo motivo, a non lavorare o a lavorare solo part-time. L’indagine dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro
Sono ben 433.000 le donne con figli in condizioni di inattività e occupate part-time che nel 2017 avrebbero potuto lavorare, anche a tempo pieno, se avessero potuto; ma la mancanza di adeguati servizi per l’infanzia e per le persone non autosufficienti non lo ha permesso.
Resi pubblici i risultati dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro “Donne al lavoro: o inattive o part-time” che ha messo in evidenza come 153.000 donne siano occupate part time e 280.000 siano in condizioni di inattività perché costrette a prendersi cura dei figli o dei familiari non autosufficienti. Un problema di cui si parla da anni ma che ancora non vede una soluzione, nonostante le tante sollecitazioni della società civile e della politica.
Servizi per l’infanzia e per la gestione di persone non autosufficienti che, oltre a essere inadeguati, sono molto costosi rispetto alla media delle retribuzioni percepite, tanto che – come pensano in molte – conviene restare a casa e non andare a lavorare, visto che lo stipendio se ne andrebbe praticamente tutto per pagarli. E sì che da anni ormai si parla di conciliazione dei tempi di vita con i tempi del lavoro – che non significa obbligare le donne a lavorare part-time (anche se è già qualcosa) ma cercare di attuare politiche di welfare che rendano veramente paritari i diritti e i doveri di uomini e donne. Compresi i tempi da dedicare alla famiglia. Si tratta di offrire delle soluzioni ai problemi che possono sorgere quando – come sempre succede al giorno d’oggi – in famiglia occorrono due entrate economiche di pari livello. Ma la logica a volte si scontra con la realtà e l’indagine dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro ne è la prova.
Divulgata in occasione della Festa della donna, l’8 marzo 2019, l’indagine offre lo spunto per analizzare cause e riflessi del part-time involontario per le donne e gli effetti sulle retribuzioni e sulle collegate future pensioni. E fa preoccupare.
I dati dell’indagine “Donne al lavoro: inattive o part-time”
Osservando soltanto i grandi Comuni italiani, a Palermo quasi metà dell’intera platea di madri in età lavorativa (44,8%) si trova in condizione di inattività o lavora solo part-time, mentre tale quota scende a poco più del 12,5% a Milano.
Delle 433 mila mamme inattive o impiegate part-time, circa 381 mila (88%) lamentano la carenza di servizi rivolti all’infanzia o a entrambi e 52 mila (12%) la carenza di servizi rivolti alle persone non autosufficienti. E mentre al Nord si osserva una maggiore insufficienza dei servizi per i bambini (91,1%) rispetto a quelli per gli anziani (8,9%), nel Mezzogiorno è maggiormente sentita la carenza di assistenza domiciliare per gli anziani (15,6%) rispetto a quella per i bambini (84,4%).
I posti di lavoro persi a seguito della crisi
Negli ultimi 10 anni sono state perse 1,8 miliardi di ore di lavoro, equivalenti ad un milione di lavoratori full time. La riduzione dell’intensità di lavoro è determinata in gran parte dal forte aumento del part-time, soprattutto per le donne (oltre il 50% delle assunzioni nel 2017). Ciò ha comportato una forte contrazione delle retribuzioni di ingresso nel mercato del lavoro che ha portato all’esplosione del fenomeno dei lavoratori poveri (working poor). La relazione tecnica dell’Inps sul reddito di cittadinanza evidenzia che un terzo dei beneficiari è rappresentato da dipendenti a basso reddito.
Le retribuzioni. Altro che parità dei diritti
La fotografia scattata dall’Osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro è stata l’occasione per analizzare i dati dell’occupazione femminile soffermandosi sulle cause che inducono le donne a scegliere il part-time o l’inattività ma anche sulle retribuzioni di ingresso al momento dell’assunzione del lavoratore, mettendo a fuoco le pesanti conseguenze sul piano pensionistico derivanti da carriere discontinue o da tempi di lavoro ridotti.
Stando ai dati forniti dall’Osservatorio, oltre il 50% delle assunzioni di lavoratrici donne in Italia è di tipo part-time: un dato che nel 2017 ha raggiunto il massimo storico (54,6%) rispetto al 2009 (47,1%). E le conseguenze si vedono direttamente già dalla prima busta paga. Infatti, nonostante l’assunzione di 2,8 milioni di donne nel 2017 (rispetto a 3,2 milioni di uomini), il 35,7% ha ricevuto uno stipendio mensile inferiore a 780 euro.
Nella classe di reddito da 1.500 a 2.000 euro gli uomini sono il doppio delle donne, mentre per i redditi ancora più alti il rapporto è di 1 donna ogni 3 uomini.
Rispetto alla posizione territoriale è il Molise, con il 46% delle donne assunte con uno stipendio inferiore alla soglia di povertà, a guidare la triste classifica, seguito da Sardegna (45%), Abruzzo, Marche e Umbria con il 41%. Così ancor oggi le differenze salariali tra uomini e donne, specie al Sud e nel Centro Italia, sono evidenti.
Nel 2017 le donne hanno avuto una retribuzione media da lavoro inferiore del 15,3% rispetto alla componente maschile. Un divario pari al 12,5% nelle classi di età più giovani, con una crescita massima del 20,4% per gli over 55.
Concilia o non concilia? La famiglia a due velocità
L’indagine si sofferma poi sulle cause del contratto di lavoro a tempo parziale per le lavoratrici donne: per la maggior parte dei casi “vittime” di part-time involontario (1,8 milioni), una condizione nella maggior parte dovuta all’impossibilità di conciliare i tempi della maternità e della vita familiare con il lavoro.
Il 40,9% delle mamme tra i 25 ed i 49 anni è impiegata a tempo ridotto, contro il 26,3% delle donne senza figli. Mentre per i padri il lavoro part-time è una modalità residuale che in nessuna condizione supera il 10%.
Le ripercussioni sul futuro delle donne
L’uso dell’orario ridotto ha conseguenze anche sul piano pensionistico. Condizioni discontinue di lavoro e a tempo parziale non consentono, infatti, di alimentare in modo continuo le posizioni previdenziali utili all’accesso alla pensione di vecchiaia.
Dai dati Inps sui beneficiari di pensioni in Italia è chiaro che, nonostante le donne beneficiarie di prestazioni pensionistiche siano 8,4 milioni (862 mila in più degli uomini), solo il 36,5% beneficia della pensione di vecchiaia – frutto della propria storia contributiva – contro il 64,2% degli uomini.
Le donne, poi, laddove arrivino a percepire la sola pensione di vecchiaia, si vedono riconosciuto un assegno mensile inferiore di un terzo rispetto a quello degli uomini.
Il commento della Fondazione Studi Consulenti del lavoro
“Rafforzare i servizi di assistenza per la cura dei figli o delle persone non autosufficienti è quanto mai essenziale” dichiara il presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca. “Potenziare tali prestazioni consentirebbe a tantissime donne di conciliare i tempi di lavoro con la cura della famiglia e di permettere ad un numero maggiore di donne di partecipare a pieno nel mondo del lavoro, in tutti i settori produttivi. Anche così il nostro Paese riuscirà ad uscire dalla crisi che ha coinvolto il mercato del lavoro che, negli ultimi dieci anni, ha perso 1,8 miliardi di ore di lavoro pari ad 1 milione di occupati a tempo pieno”.