Lavoro Pensioni

L’impatto della crisi sulle pensioni future

Tra il 2008 e il 2018 in Italia si è lavorato meno a causa della crisi e questo si ripercuoterà sulle pensioni future, soprattutto dal 2036 quando il sistema sarà interamente contributivo. Lo studio dei Consulenti del Lavoro

 

Una crisi iniziata più di 10 anni fa e che ancora fa sentire i propri strascichi. Per rilanciare l’economia italiana non bisogna farsi prendere dal panico, poiché è ormai provato che se si ha paura si bloccano gli investimenti e se si bloccano gli investimenti si ferma il lavoro e in questo modo si abbassa la disponibilità di reddito e si avvia un circolo vizioso dal quale diviene sempre più difficile uscire. Ma una questione va affrontata: le nostre pensioni future. Perché se non si sono versati i contributi a causa della disoccupazione temporanea o meno che sia, è evidente che ciò si ripercuoterà anche su di esse. Il dato sconcertante è che dal 2008 al 2018 in Italia si è lavorato oltre 2 miliardi di ore in meno, nonostante l’occupazione sia aumentata dello 0,5%, quindi retribuzioni e contributi versati sono scesi di pari passo. Quale sarà allora l’impatto sulle pensioni future? Uno studio dei Consulenti del Lavoro reso noto il 4 febbraio 2020 analizza lo scenario demografico-lavorativo del nostro Paese.

La decrescita

Tra il 2008 e il 2018 l’economia italiana non è cresciuta, anzi, il contrario. Oggi – a prescindere dai soliti proclami ottimistici che pure servono – stiamo ancora tentando di risalire la china e non siamo riusciti a raggiungere i livelli del PIL pre-crisi.

L’occupazione è leggermente aumentata (+ 125.000 unità, che in 10 anni sono pochissime) ma le ore lavorate sono scese di molto: la media annua per lavoratore era di 1.806 ore nel 2008 ed è arrivata a 1.722 nel 2018 (-4,6%). Questa decrescita di lavoro impatterà senz’altro sugli importi delle pensioni future degli italiani, che sono sempre più calcolati sui contributi previdenziali realmente versati. Non solo: come spiega la Fondazione studi Consulenti del lavoro, tale scenario peggiorerà, visto il calo demografico, destinato, anche questo, ad impattare sugli equilibri pensionistici di medio periodo. Secondo l’Ocse, infatti, entro il 2050 in Italia il numero dei pensionati potrebbe superare quello dei lavoratori.

La riforma per le pensioni future

La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con il documento “Verso la riforma previdenziale. Alcuni elementi di riflessione”, evidenzia le principali criticità del mercato del lavoro italiano e le azioni da mettere in campo per sostenere la crescita, indispensabile anche per la sostenibilità del sistema previdenziale.

Innanzitutto bisogna aumentare il numero delle ore lavorative ma anche il loro valore. “Se l’ampliamento della base contributiva costituisce un obiettivo imprescindibile per la futura sostenibilità economica del sistema” spiegano gli analisti dei Consulenti del lavoro, “l’entrata a pieno regime del contributivo, a partire dal 2036, ma con effetti già visibili per chi andrà in pensione nei prossimi anni, pone ulteriori elementi di riflessione. La responsabilità individuale rispetto al proprio futuro previdenziale, che lega l’importo del reddito in vecchiaia a quanto effettivamente lavorato e versato, trova il suo limite in alcune tendenze che iniziano a caratterizzare il mercato del lavoro italiano, in cui la ‘crescita occupazionale in assenza di crescita economica’ sembra indirizzare verso un futuro del lavoro a ‘bassa intensità e basso valore’, con più occupati e meno lavoro quindi”.

Tale dinamica è confermata dalla crescita esponenziale del part-time (e ricordiamo che quello femminile, ovvero la maggioranza, è involontario e causato dalla necessità di occuparsi della famiglia): gli occupati full-time sono calati del 4,4% negli ultimi 10 anni (-876 mila lavoratori) mentre i lavoratori part-time sono aumentati di un milione (+30,2%).

I Consulenti del Lavoro sottolineano che ciò è dovuto più a una diversa organizzazione lavorativa dovuta o alla nascita di nuovi lavori o alla riduzione delle attività indotte dalla crisi o a processi di ristrutturazione aziendale, che non alle politiche volte a favorire una maggiore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. E la crescita del numero dei lavoratori part-time è dovuta a quella esponenziale della componente involontaria, più che raddoppiata nel decennio e la cui incidenza è passata dal 40,2% al 64,1%. Ciò si traduce quindi in un impoverimento del lavoro e dei redditi e quindi dei contributi previdenziali. Le retribuzioni interne lorde per occupato dipendente hanno subito una contrazione di 1.049 euro.

La crescita economica appare pertanto obiettivo ineludibile per dare sostegno a qualsiasi futuro scenario, occupazionale e previdenziale.

Il ritardo dell’Italia

Il ritardo con cui l’Italia, differentemente dai partner europei, si è incamminata sul percorso della ripresa appare preoccupante. L’andamento del Pil in termini reali fotografa il lungo ciclo di rallentamento dell’economia nazionale, avviatosi ben prima della crisi di fine anni 2000. Tra il 2000 e il 2008 l’Italia era il Paese europeo ad aver registrato la crescita più bassa in termini reali: 7,1% contro il 10,9% della Germania, il 14,4% della Francia e il 20,7% del Regno Unito. La crisi ha aggravato ancora di più la situazione.

Malgrado a partire dal 2013 si sia avviata una ripresa, i tassi di crescita appaiono troppo deboli. Tra il 2008 e il 2018 il Pil italiano risulta ancora in “area negativa”, con una perdita netta del 3,3%. Un risultato imbarazzante se comparato alla straordinaria performance dell’Irlanda (62,3%) ma anche alle dinamiche di economie mature come Regno Unito (13,6%), Germania (+13,9%) e Francia (+9,6%).

Lavoro nero, futuro nero

Il primo dato da notare è che in Italia l’occupazione giovanile è la metà rispetto a quello degli altri Paesi europei (nel resto d’Europa è occupato il 35,3% dei giovani, in Italia il 17,7%).

A pesare poi è la ormai strutturale presenza di lavoro irregolare che in Italia “sottrae” annualmente alla platea dei contribuenti il 15,5% dei lavoratori (dato al 2017). Un danno duplice: per il sistema, che potrebbe migliorare performance in termini di sostenibilità, e per gli stessi lavoratori, il cui futuro risulta più a rischio di quello del sistema previdenziale.

Tra l’abbassamento dei redditi, la mancanza di lavoro per i giovani e il fenomeno del lavoro nero è evidente che ci sia un impatto rilevante sui lavoratori-contribuenti di oggi, la cui pensione sarà calcolata in misura preponderante o esclusiva (a partire dal 2036) con il sistema contributivo. L’assegno pensionistico con molta probabilità non sarà in grado di far vivere in modo dignitoso questi lavoratori se non iniziano fin d’ora a pensare ad “accantonare” qualcosa di extra.

La previdenza complementare

“È quanto mai necessario, soprattutto fra le nuove generazioni, sensibilizzare i lavoratori italiani ad una adeguata gestione del TFR e, più in generale, all’investimento in previdenza complementare per garantirsi un reddito adeguato nella vecchiaia” ribadisce la presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone. “Si tratta di una sfida in più per un sistema che dovrà nei prossimi anni necessariamente attivare tutta quella rete di infrastrutture e di servizi – banche dati, formazione, accompagnamento al lavoro, consulenza – necessaria a supportare l’occupabilità dei lavoratori lungo tutto l’arco della vita attiva e a coprire, con apposita e nuova strumentazione, i rischi derivanti dalle interruzioni dei percorsi lavorativi che saranno, presumibilmente, molto più frequenti e diffusi”.

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