Il lavoro non è uguale per tutti
Le differenze sociali contano molto per le aziende italiane. Contano perché non piacciono. Alcune categorie sono svantaggiate per assunzioni e promozioni. Donne, anziani, stranieri, disabili e omosessuali restano effettivamente discriminati
Niente da fare: la diversità non piace in azienda e, nonostante l’esistenza di precise pratiche organizzative per gestire le differenze, solo il 23% delle imprese le applica. Lo evidenzia la ricerca effettuata dal Diversity Management Lab di SDA Bocconi di Milano presentata il 23 gennaio.
Ai questionari hanno risposto in 750 permettendo di dimostrare come, al di là dei proclami di uguaglianza e parità, in realtà in molti casi non ci siano pratiche specifiche né ruoli per il diversity management. Per quanto riguarda l’organizzazione aziendale, solo il 23% del campione ha dichiarato che nella propria azienda è presente un sistema di pratiche per la gestione delle diversità mentre il 30% ne ha negato assolutamente la presenza. Uno dei due curatori della ricerca, Stefano Basaglia (l’altro è Zenia Simonella), ha sottolineato anche un altro dato a questo proposito: “il fatto che il 46% non sappia rispondere a questa domanda evidenzia che, forse, c’è anche un problema di comunicazione interna circa le iniziative aziendali su questi temi”.
E se l’organizzazione aziendale è carente a questo riguardo, cosa succede quando si parla di assunzioni? I ricercatori del Lab hanno verificato le opinioni degli intervistati e ne è risultato che tra gli uomini la probabilità di essere assunti è maggiore se si è giovani (un valore medio di 6,06 in una scala da 1 a 7), mentre scende se si è stranieri (5,36), omosessuali (5,35), disabili (4,73) o anziani (3,53).
Lo stesso vale per le donne, che, peraltro, raggiungono valori in genere più bassi degli uomini, a parità di caratteristiche. Se la probabilità per le donne è 5,56, donne omosessuali o straniere oscillano intorno a 5,28, mentre per le donne anziane la probabilità crolla a 3,41.
Una volta assunti c’è però il rischio di restare fermi sul primo gradino della scala carrieristica. Infatti, riguardo possibilità degli avanzamenti di carriera a parità di competenze succede la stessa cosa: uomini e donne anziani e disabili vengono discriminati, avendo meno possibilità di ottenere una promozione. Le donne, poi, se hanno anche figli risultano ulteriormente svantaggiate.
Spiega ancora Stefano Basaglia: “tanto per i processi di assunzione che per quelli di avanzamento di carriera emerge come vi siano determinate categorie sociali penalizzate e stigmatizzate all’interno della popolazione organizzativa”.
La coordinatrice del del Diversity Management Lab di SDA Bocconi, Simona Cuomo, sottolinea con forza che “non è vero quindi che le aziende utilizzino il merito per valorizzare il talento; i nostri dati dimostrano che il talento viene attribuito pregiudizialmente a certe categorie e caratteristiche sociali”.
E per quanto riguarda le politiche aziendali di bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata il discorso non cambia. Nonostante le raccomandazioni legislative e istituzionali, a livello europeo, statale o locale, ancora oggi le imprese sono ferme a una “visione tradizionale”. Le due pratiche più presenti sono il part-time (4,62 su 7) e la flessibilità sugli orari di ingresso e uscita (4,69).
Ma se parliamo di Telelavoro, job-sharing (lavoro ripartito tra due persone) o forme di flessibilità personalizzate, parliamo ancora una lingua straniera poiché queste pratiche non paiono ancora far parte del linguaggio aziendale.
Eppure, come ha concluso Simona Cuomo, “il lavoro agile, ossia l’insieme di queste pratiche di flessibilità lavorativa, è un potente strumento di gestione della nuova popolazione organizzativa delle aziende. Purché però si superino gli stereotipi che caratterizzano ancora oggi il lavoro, ossia un tempo e un luogo fisso per il suo svolgimento. Le imprese italiane, da questo punto di vista, sono ancora molto indietro”.