Diritti Lavoro

Welfare aziendale

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Pubblicato il 1° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale in Italia

Qual è lo stato del welfare aziendale in Italia e quali le potenzialità di crescita? Qual è il livello di conoscenza e di gradimento del welfare aziendale tra i lavoratori e quali prestazioni vorrebbero fossero garantite? Quale contributo può dare il welfare aziendale alla soluzione della crisi di sostenibilità del sistema di protezione sociale in Italia? Questi i quesiti a cui risponde il 1° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale in Italia presentato a Roma il 24 gennaio presso il Senato della Repubblica, realizzato in collaborazione con Credem, Edison e Michelin.

Il rapporto, presentato da Francesco Maietta, responsabile dell’area delle politiche sociali del Censis, stima il valore complessivo delle prestazioni e dei servizi offerti ai dipendenti in 21 miliardi di euro. Un enorme potenziale, poco conosciuto, che trova il favore dei lavoratori con stipendi più alti.
“Oggi il decollo del welfare aziendale è più annunciato che reale, ma in futuro può dare un notevole contributo al benessere dei lavoratori. È indispensabile che venga promosso come pilastro aggiuntivo al welfare italiano e non percepito come un premio che avvantaggia i livelli occupazionali più alti” spiega Maietta. “In Italia manca una cultura del welfare, e il welfare aziendale non può assumere la funzione di surrogato di aumenti salariali per gli occupati nelle fasce stipendiali più basse”.
L’attuale normativa, che premia fiscalmente il welfare aziendale, secondo Maietta rischia di favorire i lavoratori con redditi alti e non quelli con maggiori fabbisogni sociali aumentando le disuguaglianze tra essi.

Il rapporto descrive anche alcune contraddizioni, le cui soluzioni consentirebbero allo strumento di svolgere un ruolo primario per il benessere e la sicurezza sociale dei lavoratori rispondendo alle aspettative di sicurezza dei lavoratori e alle esigenze di buone performance delle aziende, contribuendo al rimedio della crisi di sostenibilità del sistema di welfare italiano.

I dati del rapporto sul welfare aziendale

Dal rapporto Censis-Eudaimon emerge che solo il 17,9% dei lavoratori italiani sa cos’è il welfare aziendale, il 58,5% lo conosce in parte e il 23,6% non sa cos’è. Ne hanno una scarsa conoscenza i lavoratori con bassi livelli di istruzione, quelli con redditi bassi (44,6%), i genitori single (40,3%), gli occupati con mansioni esecutive e manuali (36,7%), le lavoratrici (30,1%).
Chi conosce lo conosce, è favorevole al welfare aziendale (74,4%) rispetto a chi non lo conosce (favorevole nel 43,3% dei casi).

Di fronte alla possibilità di trasformare la retribuzione in quote premiali di welfare, il 58,7% dei lavoratori si dichiara favorevole, il 23,5% contrario, mentre il 17,8% non ha una opinione in merito. Ad essere favorevoli sono i dirigenti e i quadri (73,6%), i lavoratori con figli piccoli fino a 3 anni (68,2%), i laureati (63,5%) e i lavoratori con redditi medio-alti (62,2%).
Gli operai (41,3%) e gli impiegati (36,5%) preferiscono più soldi in busta paga che soluzioni di welfare.
Al welfare aziendale il 47,7% dei lavoratori si dichiara favorevole perché è convinto che migliori il clima in azienda, mentre il 16,8% ritiene possa aumentare la produttività dei lavoratori. L’effetto positivo sul clima aziendale è la ragione più richiamata dai lavoratori che si dicono favorevoli, ma ancora una volta è più forte il consenso tra dirigenti e occupati con alti redditi rispetto a operai e lavoratori con bassi redditi.

Le prestazioni preferite dai lavoratori sono quelle relative alla sanità (per il 53,8% degli intervistati), quelle relative alla previdenza integrativa (33,3%), i buoni pasto e la mensa aziendale (per il 31,5%).
Le prestazioni di welfare, dalla sanità alla previdenza, sono più apprezzate rispetto all’integrazione del reddito, mentre la presenza di figli minori porta a scegliere prestazioni per l’infanzia e i servizi rivolti alla genitorialità, nella convinzione che il welfare aziendale possa colmare il gap del sistema di welfare pubblico.
Il 24,6% delle famiglie con figli minori preferirebbe ottenere prestazioni di welfare come asili nido, rimborsi per tasse scolastiche, campus e centri vacanze.

Le ricadute positive del welfare aziendale

Alberto Perfumo, amministratore delegato di Eudaimon, società che sostiene le imprese nelle fasi di implementazione dei piani di welfare aziendale, ritiene che tre siano le domande a cui il welfare aziendale deve rispondere: reputazione, impegno civile ed efficienza, considerandoli interconnessi tra loro.
“Il welfare aziendale come strumento di efficienza è una opportunità che l’azienda deve cogliere” sottolinea Perfumo “ma non è un fattore stimolante per il lavoratore perché non si può basare sull’ottimizzazione delle retribuzioni e crea delle aspettative sulle persone. Se il welfare aziendale proponesse le stesse logiche della retribuzione, non farebbe che ampliare le differenze tra gli individui: chi ha un basso reddito ha anche un welfare piccolo indipendentemente dai bisogni, cioè dal fatto che possa avere determinati carichi di cura o problemi di salute. Questo non deve avvenire perché il welfare aziendale deve integrare il welfare pubblico”.

Non confondere le agevolazioni con il welfare aziendale

Ogni giorno sul mercato si affaccia un nuovo operatore e l’offerta cresce più della domanda, e i provider fanno business sui fornitori garantendo margini maggiori sulle prestazioni ricreative e i buoni acquisto – che non sono welfare, ma rientrano nelle agevolazioni – conclude Perfumo.

Pierangelo Albini, direttore dell’area lavoro e capitale umano di Confindustria, ritiene che dopo tanto caos nel welfare aziendale, con incentivi per ogni tipo di prestazione, è arrivato il momento di fare chiarezza. “Le imprese” rimarca “sono chiamate ad essere solidali e la politica deve offrire un disegno chiaro con un welfare pubblico che pensi alle necessità e ai bisogni soggettivi”.

Welfare aziendale come leva della sicurezza sociale

I sindacati considerano il welfare aziendale un pilastro della sicurezza sociale, che non deve sostituire il welfare pubblico per un risparmio di costi o un’alternativa al reddito. Tiziana Bocchi, segretario confederale della Uil, sostiene che “serve un punto di equilibrio che lasci alla politica salariale lo spazio dovuto e faccia intervenire il welfare aziendale quando ci sono esigenze trasversali di lavoratrici e lavoratori, come il supporto alla genitorialità, e alla sempre più impellente non autosufficienza delle persone”.

Per Nicola Marangiu, coordinatore dell’area welfare della Cgil nazionale, è necessaria “una correzione alla normativa che omogeneizza servizi di natura molto differente, dall’assistenza sanitaria al fitness. Un’estensione generalizzata del welfare aziendale pone un problema di sostenibilità fiscale, con una riduzione di gettito che finirebbe per avere effetti sulla possibilità di finanziare il welfare pubblico”.

Gianluigi Petteni, segretario confederale della Cisl, aggiunge che “la contrattazione deve coniugare le esigenze delle aziende con i bisogni e il benessere delle persone. Se migliora la produttività, si crea stabilità, occupazione e reddito da distribuire. Il welfare aziendale non ha futuro se lo si vede solo come uno strumento per tagliare i costi”.

Il sottosegretario al ministero del lavoro e delle politiche sociali, Luigi Bobba, sostiene che il welfare aziendale è un importante strumento per il welfare di comunità, anche se al momento è ancora poco diffuso. Il settore può rendere la società più inclusiva dell’attuale. “Stiamo passando da un welfare di natura pubblica a un welfare di comunità con una pluralità di attori: istituzioni nazionali e locali, welfare aziendale, terzo settore e famiglie, che con la spesa privata hanno modificato profondamente la composizione dei servizi e di cura” conclude Bobba.

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