La crisi ha un impatto sulla qualità del lavoro, ma gli effetti sono diversi in relazione ai diversi contesti e alle varie dimensioni in cui opera
di Daniela Delli Noci
Ad analizzare tali relazioni ha provveduto l’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che di recente ha presentato i risultati della Terza Indagine sulla Qualità del Lavoro.
Il concetto è complesso e in letteratura non esiste una definizione univoca, ha rilevato Valentina Gualtieri, la ricercatrice Isfol coautrice e curatrice del volume “Le dimensioni della qualità del lavoro”, nel corso della presentazione dei risultati della ricerca il 9 luglio scorso.
La crisi, ad esempio, ha un effetto negativo sulla qualità dell’ambiente di lavoro. L’analisi, in questo caso, fa riferimento alla dimensione ‘ergonomica’, così definita dal sociologo Luciano Gallino; la gravosità dell’attività, lo stress e l’insicurezza producono maggiori problemi nei settori dei servizi e del commercio e in tutte le situazioni nelle quali il lavoro è meno standardizzato.
Al tempo stesso, la riduzione dei ritmi di lavoro e della produzione permette ai lavoratori, in particolare del commercio e del terziario, di ottenere una maggiore autonomia e favorisce la capacità di controllare il proprio lavoro. L’effetto della crisi occupazionale si riduce con l’aumentare della qualità del lavoro in termini ergonomici e di complessità, una dimensione, quest’ultima, relativa alla possibilità di sviluppare competenze e creatività. Le ulteriori due dimensioni individuate dal sociologo sono quella dell’autonomia, ossia della possibilità data al lavoratore di stabilire con libertà le condizioni di lavoro, nonché quella del controllo delle condizioni generali del lavoro. A queste è stata aggiunta la dimensione
economica, che afferisce alla possibilità di soddisfare i bisogni essenziali alla sopravvivenza e che è stata individuata da un altro sociologo, Michele La Rosa. Sono cinque, dunque, le dimensioni dalle quali la ricerca Isfol ha preso le mosse, in quanto costituiscono punti di osservazione dell’universo lavorativo.
Il lavoro deve essere adeguato all’uomo e non viceversa: quanto affermato dai due sociologi e citato da Valentina Gualtieri, è tanto più vero in un mondo nel quale i lavoratori sono costretti ad adeguarsi alle richieste del mercato e sono stretti nel giogo della precarietà, dell’incertezza, di ciò che nell’indagine si definisce un ampliamento della job unsecurity. I motivi di questa insicurezza lavorativa non stanno tanto nella flessibilità del lavoro, quanto nella successiva mancanza di politiche di riforma in grado di rendere efficaci le nuove regole. Il risultato è sotto i nostri occhi: indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e rafforzamento di quello dei datori di lavoro.
La qualità del lavoro è diversa in relazione al genere, hanno più volte sottolineato i relatori. “Con riferimento alla dimensione economica, gli uomini sono molto più avvantaggiati rispetto alle donne, hanno salari più alti e una maggiore stabilità lavorativa, sono più soddisfatti” ha precisato a margine Valentina Gualtieri, intervistata da Donna in Affari. “Per le donne, ciò che conta di più sul lavoro è la dimensione ergonomica, quindi l’ambito che riguarda la conciliazione del lavoro, i rapporti tra vita privata e vita lavorativa, la possibilità di avere un lavoro gestibile, con orari che permettano di prendersi cura dei familiari, soprattutto dei figli.” Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire; in questo caso, però, le circostanze sono state confermate da un’indagine scientifica.
Un fenomeno tipicamente italiano è quello della ‘femminilizzazione’ del mercato del lavoro, come ha precisato da Leonello Tronti della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione nell’intervista rilasciata a Donna in Affari. Si tratta di una caratteristica che si è resa particolarmente evidente nell’ultimo periodo di crisi; tra il 2008 e il 2013, infatti, la componente maschile ha perso 1 milione di posti di lavoro, a fronte degli 11 mila della componente femminile.
Le donne nate con il ‘baby boom’, le cinquantenni di oggi, hanno un atteggiamento diverso rispetto a quello delle loro madri: il lavoro, tanto prezioso e faticosamente conquistato, lo vogliono mantenere fino all’età della pensione, sia per costrizione normativa, sia per una precisa volontà. L’augurio è che questa trasformazione strutturale, che vede le donne protagoniste, porti dei concreti miglioramenti.
In un sistema parcellizzato, o per meglio dire, polverizzato in moltissime microimprese, le compagini che alla fine ‘vinceranno’, secondo Tronti, saranno quelle che avranno un atteggiamento simile alle imprese che oggi presentano i migliori risultati. Le loro strategie di riorganizzazione sono caratterizzate da iniziative audaci: più alti livelli di efficienza, ingresso nei nuovi mercati, aumento delle relazioni interaziendali, innovazioni di processo, formazione del personale, più ampia gamma di prodotti e di servizi, esportazione e delocalizzazione.
In breve: il coraggio è la chiave del successo in tempo di crisi, mentre le strategie difensive favoriscono la recessione.
È bene che l’impresa sia più manageriale e meno padronale, che coinvolga le risorse umane nell’organizzazione; anche le politiche dovrebbero fare la loro parte. Infine, le microimprese dovrebbero adottare atteggiamenti cooperativi, prendendo spunto da alcuni casi di successo: gli ottanta falegnami del Vallo di Diano, in provincia di Salerno, sono riusciti a triplicare il fatturato grazie alla comune, vincente organizzazione. Analogo felice risultato ha ottenuto il Consorzio Federtrasporti, che, grazie alle strategie messe in atto con alcuni colossi dell’imprenditoria, ha risolto il problema del ritorno ‘a vuoto’ dei propri mezzi, trasportando le merci dei partner e usufruendo a sua volta di tale rete.
“Occorre un’impostazione diversa da quella corrente, non si deve accettare con rassegnazione quel declino che molti considerano inarrestabile” ha detto con convinzione il presidente dell’Isfol, Pietro Antonio Varesi. “È necessario, in particolare, innalzare le competenze dei lavoratori, in quanto fondamento del nuovo sviluppo economico e sociale”.
Le imprese nelle quali la qualità del lavoro è più alta” ha precisato il ricercatore Isfol Marco Centra “sono quelle che presentano le migliori performance e l’innalzamento di tale qualità può farci uscire dalla crisi in posizione non subalterna”.