a cura dell’Avv.to Domenico Monteleone, patrocinante in Cassazione
Le Leggi devono avere la caratteristica della facile comprensibilità e, pertanto, dovrebbero essere scritte in maniera chiara e con una esposizione omogenea ed immediata che ne favorisca la conoscenza e l’applicazione da parte dei cittadini.
In questo senso, la Legge dovrebbe, dunque, essere espressa e pubblicata nella lingua riconosciuta come propria dalla comunità cui è diretta.
Questo perché la generalità dei cittadini dovrebbe avere una cognizione immediata dei precetti e delle disposizioni contenute nei relativi testi perché, se è vero che l’ignoranza della legge non è una scusante, è altrettanto vero che una regola comprensibile solo agli addetti ai lavori non è di fatto conoscibile.
Questo “criterio” dell’immediatezza e della facile comprensione viene, evidentemente, meno ove si utilizzino vocaboli appartenenti a lingue straniere.
Vocaboli la cui comprensione, dunque, non risulta immediata ma che – avendo bisogno di una traduzione – subiscono quanto meno un processo di comprensione ritardato e ciò, ad esempio, da parte di tutti quei cittadini che non conoscono le lingue od anche da parte di tutti quelli che pur conoscendo le lingue non conoscono tutte le sfumature cui sono dotati i singoli vocaboli o le singole diciture o modi di dire.
Da quanto detto si può facilmente ricavare la massima secondo la quale pare quanto meno sconsigliato utilizzare termini che non appartengono alla lingua italiana.
C’è di più.
Se andiamo a vedere le Leggi – a parte la Costituzione dove non c’è un richiamo esplicito alla lingua italiana – troviamo, sia nel campo civilistico che in quello penalistico, il principio della obbligatorietà della lingua italiana che è previsto dall’art. 122 del Codice di Procedura Civile e dall’art. 242 del Codice di Procedura Penale. Anche la Legge notarile, peraltro, impone ai notai di redigere gli atti in lingua italiana.
Per quanto riguarda la Costituzione, possiamo dire che il principio della previsione di una lingua “ufficiale” è stato accolto da molti Stati ed, anzi, l’esigenza che questo stesso principio sia esplicitamente richiamato nella Carta fondamentale è stata avvertita con maggiore vigore più in tempi recenti che in quelli passati.
In passato, il fatto che vi fosse una lingua nazionale per ciascuno Stato era dato per scontato o, meglio, era considerato addirittura ininfluente e non si sentiva nessun bisogno di ufficializzare un dato – direi – immanente.
Invero, che quella italiana sia la lingua nazionale appare evidente, ed è attestato – oltre che dall’uso comune e continuato di essa – dal fatto che in italiano sono scritte le leggi, a cominciare dalla stessa Costituzione della Repubblica la quale, oltretutto, facendo riferimento a “minoranze linguistiche”, implicitamente prende atto di una esistente “maggioranza” di parlanti italiano.
Ecco che, allora, alla domanda contenuta nel titolo di questo scritto se ne aggiunge un’altra: perché? Perché utilizzare un termine o, meglio, una locuzione espressa in una lingua non italiana?
Direi di iniziare a rispondere alla prima ovvero: “cosa vuol dire Jobs Act”?. Direi anche di partire dalla traduzione letterale ossia: “Legge sui Lavori” o “Legge dei Lavori”.
Legge dei Lavori perché esiste quella “s” che rende plurale il termine “job” che vuol dire “lavoro”.
Ho condiviso questa mia perplessità a qualche amico inglese e mi ha confermato che – in verità – questa locuzione non ha un senso compiuto nella lingua anglosassone, forse sarebbe stato più giusto dire o scrivere “Job act”, più giusto in senso letterale e grammaticale, si intende.
Come mai, allora, viene espresso al plurale? Dove si è pescato per arrivare a presentare questa dicitura?
Il sospetto – ma devo aggiungere che forse si tratta di un sospetto mio personale – è che ci sia stata una commistione con il “J.O.B.S. Act” di Obama, dove J.O.B.S. sta per “Jumpstart Our Business Startups” ovvero una legge americana che disciplina i finanziamenti per la nascita e l’avvio di piccole imprese.
Una commistione o derivazione che, però, non ha molto senso poiché riguarda un ambito molto particolare e specifico e direi quindi molto poco probabile come genus della riforma italiana voluta da Renzi, la riforma de noantri mi verrebbe da dire alla trasteverina.
Perché, allora, utilizzare un termine o, meglio, una locuzione espressa in una lingua non italiana?
Uno strafalcione con ogni probabilità, uno strafalcione dettato – ma anche questa è sensazione personale – dalla voglia matta di apparire moderni, di apparire alla moda, di apparire.
E l’inglese – si sa! – aiuta ad apparire molto fighi perché, come raccontava il mitico Francesco Guccini, un conto è “quella sera partimmo John, Dean e io sulla vecchia Pontiac del ’55 del babbo di Dean e facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson…” un conto è che “poi lo traduci in italiano e dici: quella sera partimmo sulla vecchia 1100 del babbo di Giuseppe e facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Anna Pelago“. Tutta un’altra cosa!
Insomma, “Jobs Act” nella migliore delle ipotesi è uno strafalcione, uno strafalcione che però dà il titolo ad una Riforma.
Cosa posso dire? A parte l’importanza di un titolo – in ogni campo dello scibile umano – sembra azzeccato richiamare un vecchio adagio: “il buon giorno si vede dal mattino!”.
Ed il “buon giorno” appare chiaro dalla lettura dei contenuti sui quali, però, non è possibile soffermarsi in questa sede e ciò per motivi di spazio ma – vi assicuro – ce ne occuperemo nei prossimi appuntamenti.
Cosa posso aggiungere – a proposito di strafalcioni nascenti da lingue straniere – se non richiamare una citazione del più grande di tutti gli interpreti de noantri, Gigi Proietti: nella sua interpretazione di “Nun me rompe er ca’ …” che vi invito ad andare a risentire. Mi sembra azzeccata.