a cura dell’Avv.to Domenico Monteleone, patrocinante in Cassazione
Come nel più classico dei sodalizi umani – ovvero il matrimonio – finché le cose vanno per il verso giusto ed i coniugi vivono bene, non c’è bisogno di avvocati, di regole scritte, di cavilli, di divieti e, soprattutto, non c’è bisogno di sanzioni. C’è bisogno di tutto ciò quando i rapporti si logorano e scivolano prima verso il dissidio e poi verso la contrapposizione e la “guerra”.
Le medesima dinamiche le ritroviamo anche nel mondo del lavoro: finché le parti stanno bene e sono soddisfatte rispetto ai propri contrapposti interessi non c’è problema. Il guazzabuglio nasce esattamente nel momento in cui il rapporto diventa “squilibrato” in forza di un qualche elemento sopravvenuto che “guasta” il meccanismo iniziale.
Nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente, il meccanismo può “rompersi” a causa di situazioni che possono venire tanto da parte del datore di lavoro, quanto da quella del lavoratore.
Queste situazioni che minano l’equilibrio del rapporto contrattuale (tecnicamente si dice: sinallagma) possono essere divise essenzialmente in quattro grandi categorie, ovvero:
- quelle dovute alla volontà del datore di lavoro (si pensi al mobbing);
- quelle dovute alla volontà del lavoratore dipendente (si pensi al furto in azienda);
- quelle dovute a cause oggettive dalla parte del datore di lavoro (la crisi dell’azienda);
- quelle dovute a cause indipendenti dalla volontà del lavoratore (l’eccessiva morbilità ovvero una malattia molto lunga del lavoratore).
In questa rubrica cercheremo di affrontare anche tutti questi temi – visti anche alla luce dell’evoluzione legislativa – che contribuiscono a presentare le varie dinamiche del mondo del lavoro anche ai profani.
Iniziamo parlando del mobbing
Il mobbing è per noi italiani un concetto relativamente “giovane” ossia entrato da poco tempo sia nella società italiana, sia anche e soprattutto nel nostro diritto.
Se ne sente parlare sempre più spesso e lo si associa sempre più ad elementi e modalità che – a volte – hanno poco a che vedere con ciò che la legislazione chiama, appunto, mobbing.
Ma cos’è in effetti il mobbing?
Nella comune accezione giuridica è una situazione complessa poiché è caratterizzata da una serie di atti o fatti – concatenati od in sequenza tra di loro – il cui scopo è quello di fare pressione, costringere, perseguitare un lavoratore dipendente al fine di piegarlo alle volontà dell’imprenditore o di un dirigente dell’azienda, o di spingerlo a presentare le dimissioni.
Insomma, il mobbing è un processo applicato in maniera sistematica e metodicamente portato avanti con l’obiettivo di cancellare la personalità del lavoratore attraverso un’altrettanto sistematica eliminazione dei mezzi di lavoro ed all’annientamento dei rapporti personali sul posto di lavoro.
Da quanto detto, risulta subito molto chiaramente che non è sufficiente un singolo atto o qualche atto isolato a concretizzare un’ipotesi di mobbing.
Possiamo dire anche che i singoli atti – in sé considerati – potrebbero essere connotati dal requisito della liceità ovvero ogni atto o fatto in se stesso potrebbe essere lecito od ai limiti del lecito e, quindi, non avere rilevanza se non complessivamente considerati.
Pertanto, si capisce perché il mobbing non può essere confuso con quello che viene chiamato “demansionamento”, che si concretizza nell’assegnazione al lavoratore dipendente di incarichi e mansioni inferiori a quelli cui dovrebbe essere destinato in riferimento al proprio inquadramento.
Non vi è dubbio che il demansionamento è uno degli atti tipicamente utilizzati nelle attività di mobbing poiché – nella sostanza – si realizza uno svilimento morale, psicologico, mentale del lavoratore.
In ogni caso, la pura e semplice assegnazione a mansioni inferiori non appare integrare gli elementi necessari per arrivare a ritenere concretizzata una ipotesi di mobbing e ciò – vale ricordare – poiché il mobbing richiede una serie di atti che diventano rilevanti e lesivi della dignità umana e professionale del lavoratore dipendente solo complessivamente considerati.
Vale la pena sottolineare anche che sia i mezzi di lavoro, sia – anche e soprattutto – i rapporti interpersonali sono assolutamente necessari al lavoratore per la normale esecuzione della propria prestazione lavorativa ed in questo senso soccorre l’istituto del mobbing poiché appare di intuitiva evidenza la terribile immagine di un lavoratore che venga privato di quanto abbiamo riferito sopra. Lavoratore che va, pertanto, tutelato e sostenuto con appositi strumenti legislativi ed operativi.
L’elemento cardinale di questa situazione appare essere sicuramente la condotta del soggetto agente che – vale la pena ripetere – può essere sia il titolare dell’azienda, sia, allo stesso modo, un suo delegato od un dirigente della medesima azienda.
In questo caso si parla di mobbing verticale poiché vi troviamo un dirigente ed un sottoposto, ovvero esiste un rapporto gerarchico tra i soggetti in campo.
In verità può esserci anche un mobbing perpetrato e portato avanti da colleghi di un qualche lavoratore ritenuto da emarginare per i più svariati motivi (politici, etnici, razziali, di orientamento sessuale, ecc.) che, pertanto, si troverebbe a subire la condotta di mobbing .
In questo caso si parla di mobbing orizzontale – poiché non vi è rapporto gerarchico – e, senza indugiare oltre, possiamo dire con molta tranquillità che appaiono, sin da subito, abbastanza chiari i concetti ed il significato che trasmettono i termini orizzontale e verticale.
Che caratteristiche deve avere la condotta per essere rilevante ed essere così considerato mobbing?
Deve avere una caratteristica molto precisa poiché essa – considerata in maniera complessiva – deve avere una carica lesiva capace di incidere in maniera sostanziale e negativa nella dignità professionale e umana del lavoratore.
Anche per ciò che concerne la dignità bisogna specificare che essa va intesa nel senso di componente morale, psicologica, fisica o sessuale di ciascun individuo o, meglio, di ciascun lavoratore.
La necessaria presenza di una pluralità di situazioni, di atti o di fatti non è, però, sufficiente poiché tutti questi comportamenti devono essere indirizzati contro il lavoratore e mirati a perseguitarlo per – come detto – ottenerne le dimissioni.
Cosa succede se non si arriva alle dimissioni? La condotta viene forse scriminata, cioè non è rilevante e non è illecita?
No, per volere del legislatore non è così, ed in effetti la condotta mobbizzante è illecita in sé, a prescindere dal fatto che l’obiettivo cui è indirizzata venga o meno raggiunto, venga o meno realizzato.
Bene, ma cosa succede una volta che si è arrivati ad “isolare” una concreta ipotesi di mobbing?
Non vi è dubbio che il lavoratore sottoposto a mobbing e vittima di questa odiosa condotta può maturare vere e proprie patologie – fisiche o psichiche – che incidono sia sulla sua salute, sia sulla sua sfera affettiva e nella sua vita di relazione.
In questi casi di sviluppo di effetti patologici, il lavoratore ha il diritto di ottenere un risarcimento del danno mirato a compensare gli svantaggi fisici tout court subiti ed, anche, quelli che si possono prospettare per il futuro.
Si pensi all’esempio, oramai classico, di un lavoratore umiliato e vessato quotidianamente dai propri superiori che, poi, contragga una forma di depressione con tutte le conseguenze in termini di patimenti immediati ed, eventualmente, differiti nel tempo.
La domanda che – in seguito a questa esposizione – spesso sentiamo ripeterci è la seguente: “ma quali e quanti danni posso chiedere?”
È presto detto: intanto vale la pena esplicitare che i danni per i quali si può avanzare una richiesta di risarcimento sono sia di natura patrimoniale, sia di natura non patrimoniale.
Quel che è importante comprendere è, però, che tutti i danni devono essere quantificati e “tradotti” in una somma di denaro.
E, così, si può richiedere il rimborso delle spese sostenute per le cure, il costo di una perizia medico-legale, le spese sostenute per gli spostamenti, eccetera ma si può richiedere il risarcimento per i danni che comportano una lesione della salute fisica o psichica e per danni che, comunque, comportano la lesione di interessi rilevanti a livello costituzionali: stiamo parlando del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, del diritto di associarsi liberamente entro i limiti previsti dalla legge, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, eccetera.
È facile capire che la quantificazione del danno patrimoniale è molto facile e semplice ed, infatti, chi ha speso delle somme per le proprie cure mediche sarà sempre in grado di dimostrare ciò che ha versato.
Per quel che concerne il danno non patrimoniale, invece, l’indirizzo è quello di utilizzare le tabelle predisposte dai tribunali.
In questo periodo è molto utilizzata quella redatta dal tribunale di Milano che viene utilizzata su tutto il territorio nazionale e che si presenta molto articolata, congruente e coerente con i principi legislativi in materia di mobbing.
Queste tabelle contengono una quantificazione del danno non patrimoniale sulla base di un preventivo accertamento effettuato da un consulente tecnico circa le effettive conseguenze del mobbing sulla salute del lavoratore.
Orbene, cosa deve fare – dal punto di vista pratico – il lavoratore che pretenda di provare l’esistenza della condotta mobbizzante?
Dal punto di vista pratico, fornire al giudice la prova dei fatti che si assume come esistenti o realizzati è molto difficile e ciò poiché il lavoratore è tenuto a dimostrare i singoli fatti storici vessatori.
È difficile poiché è una prova che – sostanzialmente – non può esser fornita se non con testimoni che generalmente sono anche i colleghi del lavoratore sottoposto a vessazione (vessato) e che, in genere, continuano anche a lavorare per quel datore di lavoro accusato di mobbing.
Ciò che deve fare il lavoratore è, insomma, provare che i singoli atti si siano effettivamente verificati.
Per quel che concerne, invece, la prova delle finalità di questi singoli atti, ovvero l’ottenimento delle dimissioni, ci si potrà avvalere anche di presunzioni che non sono altro che le conseguenze che il giudice (o la legge) trae da delle circostanze che – in se stesse – non sarebbero in grado di dimostrare un fatto.
Ciò che consente di dare rilievo a tali presunzioni sono i caratteri della gravità, precisione, concordanza che lasciano appunto presumere l’esistenza di una circostanza non direttamente e pienamente provata.
Vale rimarcare anche che il lavoratore dovrà poi provare e dimostrare l’esistenza dei danni per i quali chiede il risarcimento; ma ciò non basta poiché dovrà anche riuscire a dimostrare che questi stessi danni sono stati causati dal mobbing.
È quello che viene chiamato “nesso eziologico”, ovvero il rapporto tra causa ed effetto che deve essere chiaro ed evidente poiché solo in presenza di questo nesso sarà possibile – evidentemente – collegare quell’effetto dannoso a quella specifica causa.
Solo così ci potrà essere il richiesto risarcimento.
Non pare dubbio che – in quest’ultima fase – debba essere considerata imprescindibile la presenza di un perito medico-legale il cui contributo sarà determinante per la dimostrazione dell’esistenza e dell’entità del danno oltre che, come si è già detto, della sussistenza di un rapporto causale con le vessazioni subite.
Come si vede, il compito del lavoratore che ha subito o ritiene di aver subito mobbing è molto arduo però ciò non deve scoraggiare nessuno ed, anzi, la sollecitazione è e deve essere nella direzione di farsi aiutare, di crederci, di intraprendere – quando è il caso – le necessarie azioni e di non contribuire ad insabbiare tutti questi comportamenti che violano la personalità di quella che, il più delle volte, rimane la parte debole del rapporto.
Un concetto – quello di parte debole – che sotto la spinta neoliberista si sta un po’ annacquando e perdendo ma che non deve essere dimenticato, se non vogliamo dimenticare tutte le battaglie civili e sociali poste in essere con coraggio dalle generazioni che ci hanno preceduto.