Uno studio dell’Università Bocconi di Milano svela come i risultati commerciali migliori per le case discografiche si abbiano con il featuring
Potremmo giudicarle “accoppiate vincenti” quelle su cui puntano le case discografiche con il featuring. Si tratta di progetti temporanei in cui si mettono insieme artisti di generi molto diversi con gli affiancamenti più svariati. La Bocconi di Milano ha analizzato il fenomeno come se fosse un caso di cobranding, ovvero dal punto di vista economico come se due aziende si unissero per un progetto e i suoi ricercatori (Andrea Ordanini, Joseph Nunes e Anastasia Nanni) hanno rilevato come all’aumentare della distanza fra i generi musicali degli artisti coinvolti, crescono le chances di successo.
Bisogna considerare che il featuring (la partecipazione di un musicista o un cantante al disco o al concerto di un collega) è un fenomeno degli ultimi anni della musica pop. Indimenticabili, a titolo di esempio per quanto riguarda le differenze di generi, i concerti degli “Amici di Pavarotti” (Zucchero, Sting, ecc.) che ebbero un successo di livello mondiale.
Ma anche nel nostro piccolo, se così si può dire, ovvero nelle ultime 20 edizioni del Festival di Sanremo, si è optato per la formula featuring: quasi 40 concorrenti infatti si sono esibiti affiancati da uno o più ospiti. Per ricordare quelli che poi hanno vinto: Ermal Meta e Fabrizio Moro nel 2018, ma altri si sono ben piazzati, come Raphael Gualazzi e Bloody Beetroots, secondi nel 2014.
Lo scopo dell’unione però non è quello di conquistare le giurie dei festival o il loro pubblico ma semplicemente vendere i propri dischi. Si tratta di una strategia puramente commerciale, come dimostra lo studio condotto sulle discografiche americane dalla Bocconi. Secondo i dati analizzati l’eterogeneità paga e gli artisti che hanno maggiori possibilità di entrare nella Top 10 dei dischi più venduti sono proprio quelli che decidono di fare “cobranding”.
Andrea Ordanini, a capo del team di ricerca, ha studiato il fenomeno del featuring attingendo alla letteratura sul co-branding e in particolare a quella che studia che cosa accade quando un brand affermato incorpora componenti di altre aziende all’interno di un proprio prodotto: “la letteratura di marketing evidenzia la convenienza delle operazioni di co-branding fra marchi appartenenti a categorie merceologiche distanti. Ricerche empiriche hanno dimostrato che, al verificarsi di determinate condizioni, i consumatori valutano i prodotti in co-branding meglio di quelli dei singoli brand”.
Il featuring prevede che vi sia una collaborazione asimmetrica tra gli artisti: uno è quello principale (host) e l’altro è il suo ospite (guest), l’innovazione sta proprio nel fatto che non si tratta di un duetto classico, in cui gli artisti hanno eguale peso. Dal punto di vista storico, il fenomeno è apparsi negli anni Ottanta, nella cultura hip-hop e poi si è evoluto nell’ultimo ventennio. Basti pensare che nella Top 100 degli Stati Uniti nel 1996 entrarono 20 brani musicali con featuring; nel 2017 ne sono entrati 150. E addirittura è stato istituto un Grammy Award ad hoc (il Grammy Award for Best Rap/Sung Performance) nel 2002 dalla Recording Academy americana, che così facendo ha certificato la rilevanza del fenomeno.
Per quanto riguarda più strettamente il mondo della musica, Ordanini ha studiato le canzoni apparse dal 1996 al 2018 nelle prime dieci posizioni della principale classifica dell’industria discografica americana, la Billboard Hot 100 e i risultati sono illustrati nello studio firmato con Joseph C. Nunes e Anastasia Nanni che ha dimostrato come, fra le canzoni Hot 100, quelle con uno o più featuring hanno effettivamente maggiori probabilità di entrare nella Top 10: il 18,4%, contro il 13,9% delle canzoni che non includono featuring.
Il successo in classifica è stato messo a confronto con la distanza che separa i generi musicali di host e guest: le collaborazioni fra artisti rap e R&B, ad esempio, sono più frequenti di quelle fra cantanti rap e country. Tale frequenza segnala una minore distanza fra i due generi. “A parità di condizioni” ha spiegato Ordanini, “all’aumento della distanza fra generi aumenta significativamente la possibilità di raggiungere la parte alta della classifica, anche se a un tasso via via decrescente”.
Ma attenzione: l’effetto positivo di cui godono le collaborazioni che superano gli “steccati stilistici” è variabile e dipende molto dal genere cui appartiene l’host. La deviazione da stili con perimetri concettuali più marcati, come ad esempio il country, può essere penalizzata dal pubblico che segue l’host, ovvero l’artista principale. Deviare va bene ma con moderazione insomma, purché si riesca comunque a trovare il giusto mix che attiri sia i fans dell’host sia quelli del guest. La pratica del featuring, nel combinare gli elementi caratteristici di due stili, deve essere infatti capace di raccogliere consensi da un pubblico ampio, che comprende non solo i fan di entrambi gli artisti, ma anche gli ascoltatori onnivori. “Nell’83% dei featuring entrati in classifica dal 1996 ai giorni nostri, quella specifica collaborazione non è stata più replicata. I featuring rappresentano quindi un’eccezione nel repertorio di un artista che mantiene così il proprio posizionamento e non diluisce il brand”.
E non si pensi che conti solo la popolarità dell’host: anzi quando inizia a scemare, l’artista principale o con più esperienza può “sfruttare” la collaborazione dei colleghi più giovani proprio per aggiornare la propria immagine. In questo modo entrambi gli artisti hanno un vantaggio anche sotto questo profilo.
Ma qual è l’elemento che permette a un featuring di avere successo, di diventare appunto un’“accoppiata vincente”? Secondo gli autori dello studio, l’artista deve “comunicarne la logica mettendo in evidenza il carattere temporaneo e allo stesso tempo innovativo della collaborazione”. Come fanno ad esempio i rapper, anche italiani in quanto il fenomeno di certo non è solo americano: vi sono featuring in oltre metà dei 50 album italiani di canzoni più venduti nel 2018 (fonte: FIMI Federazione Industria Musicale Italiana).
E l’idea di creare abbinamenti audaci, come dicevamo, è giunta anche al Festival di Sanremo di quest’anno: nel 2019 saliranno sul palco del Teatro Ariston tre coppie formate da cantanti appartenenti a generi diversi: Patty Pravo & Briga, Nino D’Angelo & Livio Cori, Federica Carta & Shade. A comprova di quanto finora detto sulle strategie delle case discografiche.