Lavoro Normative

I contratti di lavoro a tempo indeterminato

Pubblicato lo studio “I contratti di lavoro a tempo indeterminato prima e dopo il Jobs act” a cura dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro

Lo studio, reso noto il 14 gennaio 2020, è stato elaborato dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro utilizzando i microdati CICO (Campione integrato comunicazioni obbligatorie) e paragona i due tipi di contratto di lavoro a tempo indeterminato: quello precedente al Jobs Act e quello “a tutele crescenti” introdotto appunto con il Jobs Act dal marzo 2015. Secondo i dati emersi, il contratto a tutele crescenti non presenta un maggior rischio di licenziamento rispetto a quello soggetto al regime dell’art. 18 (l’articolo, nella versione abolita nel 2015, aveva lo scopo di tutelare i lavoratori dipendenti in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio, disciplinando il reintegro con risarcimento e l’indennità in sostituzione della reintegrazione in caso di licenziamento), tant’è che, a 39 mesi dall’assunzione, risulta licenziato il 21,3% dei dipendenti assunti nel 2015 con il nuovo regime a fronte del 22,6% dei neoassunti con contratto precedente “tradizionale” nel 2014. Secondo i consulenti del lavoro dunque, con il Jobs act non sono aumentati i rischi di licenziamento per ingiusta causa per i lavoratori. Vediamo perché.

Lo studio nel dettaglio

Considerato che gli ultimi dati disponibili fanno riferimento a giugno 2019, i mesi per cui è possibile valutare la “tenuta” dei nuovi avviati con contratti a tutele crescenti sono 39.

Dall’analisi effettuata è risultato che, a 39 mesi dall’assunzione, il 39,3% dei contratti stipulati nel 2015 continua ad essere attivo contro il 33,4% di quelli sottoscritti in regime di articolo 18. Tra le motivazioni dei licenziamenti, quelli per motivo economico restano la principale causa di recesso (a 39 mesi dall’assunzione risulta licenziato per tale motivo il 18,5% dei neoassunti con contratto a tutele crescenti contro il 20,6% degli assunti con contratto a tempo indeterminato tradizionale), mentre il licenziamento disciplinare continua a interessare una quota marginale di neoassunti con le tutele crescenti (2,8% contro 2,1%).

L’analisi è stata condotta confrontando gli esiti occupazionali dei contratti a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del regime a tutele crescenti, con gli avviamenti effettuati tra il 2011 e il 2014 e, dunque, soggetti all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, per un periodo pari a 39 mesi dall’attivazione (escludendo i contratti a tutele crescenti che hanno beneficiato dell’esonero contributivo triennale previsto dalla L. 190/2014 che ha avuto un impatto significativo sulle nuove assunzioni). Lo studio è stato realizzato alo scopo di analizzare gli effetti derivanti dalla introduzione del regime delle tutele crescenti per i licenziamenti illegittimi, al fine di valutarne la maggiore o minore esposizione al rischio di cessazione rispetto a quanto verificabile in caso di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.  Il Jobs act, infatti, ha significativamente modificato la disciplina che regola le conseguenze dei licenziamenti illegittimi, introducendo un meccanismo di calcolo aritmetico per la determinazione della indennità da riconoscere, legato all’anzianità di servizio, che si applica a tutti i rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato instaurati dopo l’entrata in vigore del Jobs Act a marzo 2015. Ricordiamo che l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori continua ad applicarsi per tutti gli altri contratti di lavoro in corso a quella data.

Cosa è cambiato dopo il Jobs Act

Cosa è cambiato per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del contratto a tutele crescenti) rispetto a quelli assunti tra il 2011 e il 2014 con il contratto precedente (e le tutele dell’art. 18)? In base all’analisi dell’Osservatorio sembra evidente che il contratto “post 2015” non sia a maggior rischio di licenziamento anzi: il rischio è minore, visto che il numero dei licenziati è inferiore. Inoltre, il motivo economico resta la principale causa di licenziamento in entrambi i casi, mentre quello disciplinare, che preoccupava i dubbiosi, interessa una quota marginale di neoassunti (2,8% contro 2,1%). Come abbiamo visto, poi, il contratto a tutele crescenti presenta un maggiore “tasso di sopravvivenza” rispetto a quello tradizionale.

 

Le assunzioni grazie all’esonero contributivo

A partire dal 2015, la legge finanziaria (L. 190/2014) ha previsto importanti contributi a sostegno dell’occupazione, tra cui l’esonero contributivo totale per i nuovi contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, della durata di 3 anni, che ha avuto un impatto estremamente significativo sui nuovi avviamenti al lavoro. Al fine di “depurare” l’effetto derivante dall’uso di tale beneficio, l’analisi presenta anche una distinzione tra nuovi contratti di lavoro soggetti alle tutele crescenti, che prevedono anche l’esonero contributivo, e contratti che, al contrario, non lo prevedono.

La Legge stabilisce che alcuni dipendenti non possano essere assunti con il beneficio dell’esonero contributivo, e ciò in base alla storia pregressa del lavoratore e alla relazione con lo stesso datore di lavoro precedente. In particolare, i contratti privi di esonero individuati sono:

– contratti stipulati da lavoratori che nei sei mesi precedenti avessero in essere un contratto a tempo indeterminato;

– contratti stipulati da lavoratori occupati a tempo indeterminato (incluso l’apprendistato ed escluso il lavoro intermittente) dallo stesso datore di lavoro nel periodo ottobre-dicembre dell’anno precedente;

– contratti stipulati dalla coppia lavoratore-datore di lavoro per cui risulti una cessazione nei sei mesi precedenti;

– contratti a tempo indeterminato attivati ma che hanno il lavoratore anche figurante come socio lavoratore.

I risultati evidenziano che l’esonero contributivo totale – che ha interessato circa i due terzi dei nuovi contratti a tutele crescenti stipulati nel 2015 – non condiziona l’esito del percorso professionale: il rischio di licenziamento, a 39 mesi dall’attivazione del contratto, risulta uguale tra gli assunti con esonero contributivo e quanti sono stati assunti senza. Semmai – spiegano gli analisti – la presenza dello sgravio totale sembrerebbe favorire una maggiore “sopravvivenza contrattuale”: risultano infatti ancora occupati a tempo indeterminato dopo 39 mesi dall’assunzione il 40,5% dei neoassunti con esonero contributivo contro il 37,1% di quelli “senza esonero”.

Conclusioni

A quanto pare dunque l’equazione “tutele crescenti–licenziamento agevole” appare infondata, anche rispetto alla formulazione originaria del D. Lgs. 23/2015, cui era attribuita una malintesa economicità del licenziamento soggetto a questo regime.

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