Lavoro Mestieri e professioni

Mercato del lavoro 2019. Report istituzionale 2020

Pubblicato il rapporto annuale sul mercato del lavoro in Italia a cura congiunta di Ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal

Il Rapporto annuale sul mercato del lavoro è frutto dell’accordo quadro tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal, finalizzato a “produrre informazioni armonizzate, complementari e coerenti sulla struttura e sulla dinamica del mercato del lavoro in Italia” allo scopo di valorizzare la ricchezza delle diverse fonti d’informazione sull’occupazione (amministrative e statistiche) per rispondere alla crescente domanda di una lettura integrata dei dati sul mercato del lavoro.  Grazie a questa cooperazione è possibile avere un quadro d’insieme della situazione lavorativa italiana. Infatti, gli approfondimenti del report trattano diversi argomenti correlati al lavoro: dalle dinamiche del lavoro in questa fase di incertezza alla crescita del part time, dai tirocinii al lavoro autonomo senza dimenticare il capitolo della sicurezza sul lavoro.

Il rallentamento dell’economia
La nota di apertura del report avvisa subito che il quadro è segnato dal progressivo rallentamento della crescita economica in un contesto globale di incertezza dovuta alle guerre commerciali (attenuate ma non scomparse in seguito al recente accordo Usa-Cina), alle accresciute tensioni geopolitiche e alla comparsa del coronavirus Covid-19. Tutti fattori che stanno indebolendo le prospettive di crescita economica con un prevedibile impatto sfavorevole anche sul mercato del lavoro. Ci sono però anche aspetti positivi: emergono evidenze di un miglioramento del mercato del lavoro che oggi sembra aver portato il livello di occupazione ai suoi massimi, anche se spicca l’utilizzo del part time involontario, l’aumento del gap con il resto d’Europa e l’acuirsi degli squilibri territoriali.

Il mercato del lavoro in questa fase di incertezza
Nell’ultimo semestre del 2019 nell’euro zona la crescita dell’occupazione cresce lentamente ma resta al massimo storico mentre prosegue la diminuzione del tasso di disoccupazione che a dicembre ha toccato il 7,4%. Anche in Italia nell’ultimo semestre del 2019 l’occupazione ha toccato il suo massimo storico: 23,4 milioni di occupati. Nel dato preliminare di gennaio 2020 però si registra un calo del numero degli occupati.
Permane la tendenza a una crescita occupazionale a bassa intensità lavorativa: il numero di occupati supera il livello del 2008 ma la quantità di lavoro utilizzato è ancora sensibilmente inferiore. A differenza della fase ciclica degli anni ’90, in cui l’occupazione e le ore lavorate seguivano sostanzialmente lo stesso andamento, la fase più recente è caratterizzata da una discesa delle ore lavorate e da una caduta del tempo pieno a fronte di una sostanziale tenuta dell’occupazione. In poche parole: ci sono più lavoratori ma lavorano per meno ore.

Il gap con il resto dell’UE
Gli elevati divari con l’Unione Europea sono aumentati: il gap nel tasso di occupazione è passato da 8,9 punti nel primo trimestre 2014 fino a 10,2 punti nel terzo 2019 e quello del tasso di disoccupazione da 2,1 a 3,5 punti, con differenze più accentuate per le donne e i giovani. Continuano ad ampliarsi alcuni storici divari caratteristici del nostro Paese, anzitutto quello generazionale a favore dei più adulti. Seppur in lieve diminuzione, i divari di genere rimangono elevati: la metà delle donne in età attiva non lavora e quasi una donna su cinque vorrebbe lavorare ma non trova un impiego.

Le disuguaglianze territoriali
Si accentuano le disuguaglianze territoriali: nella media dei primi 3 trimestri del 2019 la distanza tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord è di oltre 20 punti per il tasso di occupazione e per quello di mancata partecipazione. Nelle regioni meridionali, il tasso di occupazione per settore e professione evidenzia la minore domanda di lavoro nei settori di industria in senso stretto, servizi alle imprese, istruzione e sanità nonché la forte mancanza di professioni a medio-alta qualifica.

Il part time italiano vs il part time europeo
Nel 2018 gli occupati a tempo parziale in Italia sono 4,3 milioni, il 18,6% del totale. Tale quota, cresciuta in modo continuo negli ultimi anni, si è avvicinata a quella della media UE (20,1%). La differenza residua dipende principalmente dal lavoro indipendente che in Italia è più presente e meno interessato dal part time, mentre per i dipendenti la quota è pressoché analoga in Italia e in Europa.
Tra Italia e Ue esistono tuttavia forti differenze nell’utilizzo del part time. In Italia tra il 2008 e il 2018 la quota di occupati a tempo parziale che dichiara di non aver trovato un lavoro a tempo pieno è passata dal 40,2% al 64,1% mentre in Europa è scesa dal 24,5% al 23,4%. Difatti, in Italia il ricorso al part time si lega più a strategie delle imprese che a esigenze degli individui e ha rivestito un ruolo di sostegno all’occupazione nei periodi di forte calo del tempo pieno.

Il lavoro part time in Italia
Nel Mezzogiorno il part time involontario sfiora l’80% contro il 58,7% nel Centro-nord, a fronte di una diffusione analoga nelle due ripartizioni.
Il part time involontario è più diffuso nei servizi alle famiglie, nelle professioni non qualificate e tra gli atipici. A parità di condizioni, la probabilità di essere in part time involontario per una donna occupata è circa tre volte superiore a quella di un lavoratore.
Nel 2018 oltre 5,5 milioni di dipendenti sono stati interessati, per almeno un giorno, da rapporti di lavoro part time; di questi 4,6 milioni sono stati coinvolti in maniera esclusiva.
Rispetto al 2008 le giornate retribuite part time sono aumentate del 60% mentre quelle complessive appena del 5%. La crescita è spiegata più dalle nuove assunzioni che dalle trasformazioni da full time a part time.

Gli orari del part time
Mediamente il regime di orario part time è pari nel 2018 al 59% dell’orario contrattuale.
Considerando la variabilità dei regimi di orario di part time si possono distinguere quattro tipi di part time:

  • “marginale” (fino al 37% del corrispondente full time),
  • “standard” (tra il 38% e il 56%),
  • “rafforzato” (dal 57% al 74%),
  • il “quasi full time (dal 75% in su). Quest’ultima forma è più diffusa al Nord e nel pubblico impiego.

La crescita del part time è dovuta sia a un maggior ricorso a tale regime di orario sia a un’intensificazione presso le imprese che già lo utilizzavano. Rispetto al 2014 le imprese con solo dipendenti full time sono diminuite del 14% mentre sono cresciute del 12% quelle con solo dipendenti part time e del 9% quelle con entrambe le tipologie.

Le cessazioni dei rapporti di lavoro
I licenziamenti relativi a rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono passati da 647 mila nel 2014 a 579 mila nel 2018. La quota di licenziamenti sul totale delle cessazioni nel 2018 è risultata pari al 36% contro il 42% nel 2014; le dimissioni hanno pesato per il 53% nel 2018 e per il 48% nel 2014.
La gran parte dei licenziamenti (9 su 10) è motivata da ragioni economiche, ma l’incidenza di quelli disciplinari sul totale dei licenziamenti risulta in crescita: dal 7,4% del 2014 al 13% del 2018.
La maggior parte dei licenziamenti avviene nelle piccole imprese (62% nel 2018). In particolare, i datori di lavoro che hanno licenziato dipendenti con rapporti di lavoro a tempo indeterminato hanno anche attivato nuovi contratti a tempo indeterminato, in ragione di 1,2 rispetto ai licenziamenti effettuati (0,7 nelle piccole imprese e 2,0 in quelle più grandi).
La maggioranza dei licenziamenti riguardava persone con contratti part time e lavori di breve durata (in cui sono inclusi i licenziamenti intervenuti nel periodo di prova). Nel 2018 oltre un terzo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato interrotti per licenziamento ha la durata inferiore a un anno; i licenziamenti entro tre mesi dall’assunzione sono più frequenti tra i giovani fino a 29 anni (18,8% in confronto al 10,8% del totale).
La quota di lavoratori licenziati in presenza dei requisiti richiesti per accedere alla NASpI (lo strumento di sostegno al reddito dei disoccupati entrato in vigore nel 2015), oscilla attorno al 60% per gli anni 2016-2018. Il mancato accesso alla NASpI è motivato essenzialmente dal tempestivo ricollocamento al lavoro, che interessa circa il 30% dei lavoratori licenziati.

Il tirocinio
In Italia il numero dei tirocinii è passato da 227 mila nel 2014 a 349 mila nel 2018, con una crescita del 53,9%. Nel complesso, nel quinquennio 2014-2018, i tirocini sono stati 1 milione e 615 mila e rappresentano il 2,5% di tutte le attivazioni dei nuovi rapporti di lavoro. L’incremento ha riguardato sia il numero di individui coinvolti, sia il numero delle imprese ospitanti.
Il numero di individui è cresciuto nel corso del quinquennio del 57,1%, per un totale di 1 milione 158 mila, dei quali il 51% sono giovani tra i 15 e i 29 anni alla loro prima esperienza nel mercato del lavoro. A un anno dal termine dell’esperienza, il tasso di inserimento si avvicina al 60%.
Il numero delle imprese che avviano tirocini è cresciuto notevolmente nel periodo 2014-2017, passando da 101 mila a 174 mila. Il 67,5% dei tirocini è attivato dalle imprese con meno di 50 addetti ma i tirocini con più elevati livelli di competenza si svolgono presso le imprese di maggiori dimensioni e nelle imprese attive in settori economici con un alto livello tecnologico.

Il lavoro autonomo
Nel 2018 in Italia i lavoratori indipendenti, autonomi, sono risultati circa 5 milioni (il 21,7% degli occupati).
Nel periodo 2008-2018 l’occupazione indipendente si è ridotta del 9,5% (558 mila unità in meno) a fronte di un aumento del 4% di quella dipendente (+682 mila persone). Malgrado ciò l’Italia si colloca al terzo posto in Europa per la quota di lavoratori autonomi, dopo Grecia e Romania, soprattutto per l’elevata presenza di quelli senza dipendenti.

I dependent contractor
Il lavoro autonomo comprende una gamma di identità professionali che in alcuni casi possono incontrare limitazioni e vincoli nei rapporti con i propri clienti/committenti. Tanto che l’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro) ha approvato una nuova classificazione che rivede i confini tra dipendenti e indipendenti, individuando la nuova figura dei dependent contractor: occupati formalmente autonomi vincolati da rapporti di subordinazione con un’altra unità economica (cliente o committente) che ne limita l’accesso al mercato (prezzi, tariffe, ecc.) e l’autonomia organizzativa.
Nella media dei primi tre trimestri del 2019 la Rilevazione sulle forze di lavoro stima 452 mila dependent contractor, l’11,5% degli indipendenti senza dipendenti. La monocommittenza costituisce un tratto distintivo: circa il 50% dei dependent contractor dichiara di lavorare per un unico cliente a fronte del 15,3% degli altri autonomi senza dipendenti; i dependent contractor sono inoltre più soggetti a vincoli organizzativi, quali il lavorare presso il cliente/committente o il dover rispettare dei vincoli nell’orario di lavoro.

Tra i dependent contractor vi è una maggiore presenza di donne e quote più elevate di giovani tra 15 e 34 anni (26,4% a fronte del 10,0% tra i datori di lavoro e del 15,8% degli autonomi senza dipendenti).
Le professioni più frequenti tra i dependent contractor si configurano come una domanda di lavoro che mira a esternalizzare e scarica su questi lavoratori una parte dei rischi di impresa (operatori di call center, venditori a domicilio, addetti alle consegne, conduttori di mezzi pesanti).

Sicurezza sul lavoro
Nel 2018 gli infortuni sul lavoro accaduti e denunciati all’Inail sono stati 562.952, oltre 1.500 al giorno, in lieve flessione rispetto al 2017 (-0,5%, circa 3 mila in meno).
Dal 2008 la diminuzione delle denunce è stata del 35,5% con oltre 300 mila casi in meno (dai primi anni 2000, erano oltre 1 milione, le denunce si sono ridotte di quasi la metà).
Gli infortuni riconosciuti per il 2018 sono 373 mila, di cui più del 21% “fuori dell’azienda” (in occasione di lavoro con mezzo di trasporto coinvolto e in itinere).
Le denunce per esiti mortali di infortuni accaduti nel 2018 sono state 1.245, oltre 3 al giorno, 95 in più rispetto al 2017, ma 369 in meno dal 2008.
Il 2018 si è contraddistinto per l’elevato numero di incidenti mortali “plurimi” (come il crollo del ponte Morandi a Genova, con 15 vittime, e i due incidenti stradali a Lesina e a Foggia con 16 braccianti vittime). I casi mortali accertati positivamente sono stati 744, di cui il 60% “fuori dell’azienda”.
I primi dati provvisori sulle denunce di infortunio del 2019 registrano rispetto all’anno precedente una sostanziale stabilità dei casi in complesso e un calo di infortuni mortali.
Nel periodo 2014-2018 diminuisce l’incidenza delle denunce di infortunio sul numero degli occupati: si è passati dalle 28,3 denunce ogni 1.000 lavoratori del 2014 alle 26,3 del 2018; per i casi mortali, caratterizzati da maggiore variabilità, l’incidenza nel 2018 si riposiziona sui livelli del 2014 (5,8 denunce mortali ogni 100.000 lavoratori). L’incidenza degli infortuni in occasione di lavoro nel quinquennio 2014-2018 risulta in calo mentre quella per i casi in itinere in lieve aumento; analoga la tendenza per i casi mortali. L’incidenza infortunistica delle denunce risulta più elevata in agricoltura che nelle attività industriali o dei servizi.

Le malattie professionali
Nel 2018 sono state denunciate 59.503 malattie professionali, in lieve aumento (+2,6%) rispetto all’anno precedente.
Le malattie riconosciute positivamente, a dato consolidato, sono circa 24 mila l’anno; per il 2018, nel 67% dei casi interessano il sistema osteomuscolare (prevalentemente disturbi dei tessuti molli e dorsopatie), nel 15% il sistema nervoso (prevalentemente sindromi del tunnel carpale), nel 4% sono tumori.
I primi dati provvisori del 2019 indicano ancora un aumento delle denunce di malattia professionale rispetto al pari periodo del 2018.
Cresce progressivamente l’età media alla denuncia di malattia professionale: da 52 anni nel 2008 a 56 nel 2018. A dato consolidato, ogni anno, a prescindere dalla data di denuncia, sono mediamente 1.700 i lavoratori deceduti con riconoscimento di malattia da lavoro, con età media alla morte di 77 anni.

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