La maggioranza dei lavoratori italiani non è soddisfatta del proprio lavoro. I dati emersi dalla 10° European social survey che mette a confronto 30 nazioni europee
Tra quanti esprimono soddisfazione per la propria occupazione, sono i lavoratori italiani ad figurare negli ultimi posti della classifica stilata a seguito dell’indagine che mette a confronto 30 Paesi del continente europeo più Israele.
La European social survey
La European social survey è un’indagine statistica comparata condotta a livello transnazionale per studiare i cambiamenti delle società e le trasformazioni delle condizioni di vita e delle opinioni degli individui, nonché l’evoluzione del tessuto sociale, politico ed etico delle società europee. Ha cadenza biennale, la prima edizione è stata realizzata nel 2001. Nel 2017 il nostro Paese è tornato a contribuire all’indagine con la designazione dell’Inapp da parte del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. L’Inapp ha completato tre cicli dell’indagine: ottavo, nono e decimo. In occasione di quest’ultima edizione ha realizzato il primo “Rapporto nazionale della European Social Survey in Italia”.
La presentazione del Report
Il primo “Rapporto nazionale della European Social Survey in Italia” da parte dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) è stato presentato a Roma il 22 settembre 2023: nel volume vengono analizzate e comparate a livello internazionale le opinioni degli italiani e delle persone residenti negli altri Paesi partecipanti all’indagine su varie tematiche quali: nuove tecnologie, benessere, lavoro, apprendimento, salute, immigrazione. Per quanto riguarda il lavoro in Italia, i dati sono sconfortanti.
L’insoddisfazione dei lavoratori italiani
Solo 47 lavoratori italiani su 100 dichiarano elevati livelli di soddisfazione: 7 punti percentuali sotto la media europea. Ma soprattutto distanti anni luce dalle percentuali del 71% e oltre di Paesi come Finlandia, Islanda, Olanda, Norvegia, Belgio. Di fatto, meno contenti di noi ci sono solo Grecia, Serbia, Polonia, Repubblica Ceca e Spagna. La soddisfazione lavorativa in Italia, dunque, risulta essere meno diffusa rispetto alla media dei Paesi considerati e soprattutto rispetto ai Paesi del Nord Europa, nonostante si osservino quote rilevanti di occupati che dichiarano di essere altamente o mediamente soddisfatti. Tale quota si riduce ancor di più se i livelli di istruzione non sono elevati, i contratti di lavoro sono temporanei, gli inquadramenti professionali sono a bassa qualificazione e se si ha una cittadinanza non italiana.
L’analisi sul sentiment negativo dei lavoratori italiani
“Come per la maggior parte dei Paesi presi in esame, anche in Italia la soddisfazione lavorativa dipende ormai in modo significativo dalla flessibilità oraria e dalla possibilità di scelta del luogo della prestazione lavorativa” ha affermato il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp. “Due dati dell’indagine lo dicono chiaramente: la quota di occupati altamente soddisfatti sale dal 47% al 68% (+21 punti percentuali) nel caso in cui si possa beneficiare di flessibilità oraria. Lo stesso vale per tutti i Paesi analizzati, la cui media passa dal 54% al 69%. Al contrario, la quota di altamente soddisfatti scende al 44,6% nel caso in cui non ci sia la possibilità di scegliere il luogo dove svolgere il proprio lavoro”. Tuttavia, in Italia la quota di occupati che possono avvalersi di tale autonomia risulta ancora molto limitata: solo il 15,7% degli occupati italiani può scegliere inizio e fine del proprio orario di lavoro (rispetto al 20,6% medio degli altri Paesi) e solo il 30,8% può scegliere il luogo di lavoro (contro il 42,3%). Più penalizzati risultano i lavoratori con basso livello di istruzione, bassa professionalità e contratti non stabili.
La mancanza di flessibilità nei luoghi di lavoro
La maggior possibilità di autodeterminazione dei luoghi e dei tempi per svolgere il proprio lavoro quotidiano – spiega il Rapporto – possono essere interpretate come sintomi di autonomia sul lavoro. Sotto questo punto di vista l’Italia, insieme a Bulgaria, Macedonia, Ungheria, Croazia, Grecia, ma anche Portogallo, Spagna e Francia, ovvero Paesi dell’Europa dell’Est e mediterranei, è tra i Paesi nei quali vi è maggiore rigidità. All’estremo opposto i Paesi del Nord Europa e dell’Europa continentale. “Va anche considerato” ha aggiunto Fadda “che già prima dell’evento pandemico la possibilità per i lavoratori di scegliere il luogo dove prestare la propria attività lavorativa era meno diffusa in Italia rispetto ad altri Paesi. Con la crisi pandemica questa si è estesa, specialmente in alcuni settori e per gli occupati a più alta qualifica professionale, nonché per le donne con necessità di conciliazione tra lavoro e carichi di cura; ma fasce di occupazione notevoli sono rimaste escluse. Anche oggi la diseguaglianza nella possibilità di fruire di tale possibilità tra le diverse categorie di lavoratori costituisce un problema”.
In conclusione “pesano rigidità su tempi e luoghi di lavoro” afferma il presidente Fadda. “La soddisfazione, infatti, cresce di oltre 20 punti percentuali se si beneficia di autonomia nella scelta dell’orario e scende di 3 punti se non si può scegliere il luogo della prestazione lavorativa. Servono strumenti a livello tecnologico, organizzativo, giuridico, che favoriscano la flessibilità del lavoro. La crisi pandemica ha fatto emergere la possibilità di nuovi modelli di organizzazione del lavoro ma, finita la crisi, in Italia non si è andati molto avanti su questa strada, anzi si è spesso tornati indietro”.