COMUNICAZIONE

L’assenza di una epopea delle donne imprenditrici

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americo-bazzoffiaPer una adeguata rappresentazione sociale delle imprenditrici nella pubblicità contemporanea

di Americo Bazzoffia, Libero docente universitario e consulente in comunicazione strategica integrata

“Nomen omen” usavano dire in antichità, tradotto letteralmente, significa “il nome è un presagio” o meglio “il destino nel nome”. Infatti i Romani sceglievano con particolare cura i nomi da dare ai propri figli perché ritenevano che nel nome della persona fosse indicato il suo destino. La stessa attenzione viene posta nell’attuale scienza del “naming”, lo studio dei nomi dei prodotti e delle aziende, che non è soltanto un espediente denotativo per riconoscerli ed identificarli, ma può costituire un elemento connotativo ossia capace di generare ulteriori significazioni che possono fondarsi su diversi elementi per sottolineare:

  • l’ingredientistica (Filtrofiore o Orzoro);
  • le funzioni (Polivetro o Perlana);
  • le modalià d’uso (Pronto, Night and Day, Senz’acqua, Pocket coffee) o onomatopeiche allusioni (Tic Tac, Crik Crok, Schweppes, Sprite);
  • evidenziare il consumatore a cui è rivolto (Volkswagen “auto del popolo” o Donna in Affari come il nome di questa rivista digitale) o evidenziare i benefict per i consumatori (Stira e Ammira, Fabello, Scansafatiche, Svelto);
  • valorizzare il legame esistente tra la marca e il prodotto (come Nestea derivante da Nestlé o DanUp derivante da Danone);
  • evidenziare suggestioni legate ad elementi naturali (Sole, Panda, Puma) o sociali (Diva, Libera e Bella) o puramente immaginifici (come Brio Blu, Vera);
  • luoghi di provenienza che sottolineano il “made in” (Come Ibiza, Lanital, Swiss Air, Vecchia Romagna) o evocano ambientazioni immaginifiche (Antica Gelateria del Corso, Mulino Bianco, Antica Erboristeria, Mare Blu, La valle degli orti). 

Ma la maggior parte dei prodotti e dei marchi che acquistiamo derivano da “nomi di persone” che possono essere di fantasia (Margherita, Pippo, Lucian Rochat, Ranieri o Dr. Knapp)  oppure reali (come Ford, Piaggio, Ademars Piguet, Ferrari, Colgate, Black & Decker, Procter & Gamble, Barilla, Lavazza, Heineken, Gillette, Armani, Benetton, Martini & Rossi, ecc.) esposti in modo chiaro o sotto forma di acronimi (per esempio ADIDAS dalla fusione del diminutivo del nome del fondatore Adolf (ADI) e da alcune lettere del suo cognome DASsler  o IKEA ossia I-ngvar K-amprad cresciuto a E-lmtaryd e  A-gunnaryd o ARISTON da Aristide Merloni e il suffisso inglese “on” ) o nomi di prodotti di origine inglesi o americani che utilizzano la forma del genitivo sassone ossia la “s” preceduta dall’apostrofo per indicare in forma breve l’appartenenza di un oggetto ad una persona (per esempio “Mc Donald’s” panini fatti dai fratelli Richard e Maurice Mc Donald, “Levi’s” jeans di Oscar Levi Strauss, “Kellogg’s” prodotti dal dott. John Harvey Kellogg). 

Dal punto di vista della comunicazione, il nome del “fondatore” (nella maggior parte dei casi maschile), riesce ad evocare il suo ingegno, i suoi sforzi e la sua “epopea” relativa alla creazione del prodotto o del servizio. Questa capacità evocativa ha una valenza comunicativa unica ed imprescindibile che influenza e si riverbera anche in altre forme della comunicazione dell’impresa stessa. Per esempio nel packging, ossia sulle confezioni del prodotto. Figura storica da questo punto di vista – e certamente ormai entrata nell’immaginario collettivo di intere generazioni – è quella del Dott. Ciccarelli del dentifricio “Pasta del Capitano” presente ancora oggi con la sua immagine dagherrotipica, sulle confezioni di ogni tipologia di questo prodotto. L’azienda farmaceutica Ciccarelli deriva il nome e la confezione dei suoi prodotti dal fondatore: il Dott. Clemente Ciccarelli, farmacista nonché ufficiale della Savoia Cavalleria nel Regio Esercito (ecco perché “Pasta del Capitano”) che creò i suoi primi prodotti nella farmacia fondata nel 1905 a Cupra Marittima nelle Marche.

Dietro ogni azienda c’è un fondatore con una epopea individuale che varrebbe la pena raccontare per le condizioni avverse in cui si è sviluppata, per la miseria da cui nasce, per l’ingegno e la creatività che esprime, per le pionieristiche e a volte incredibili ‘imprese’ compiute, ma anche per “il fato” che riserva strabilianti fortune ad audaci ed acuti personaggi.  Si tratta di un piccolo mondo antico, a volte borghese a volte miserrimo e figlio di un Dio minore, che riserva esperienze avvincenti, sagaci, uniche, intrepide o straordinarie. Esistono – legate ai fondatori di una impresa – saghe, narrazioni, epopee che nemmeno il gusto per l’avventura di Emilio Salgari o la fervida fantasia di Jules Verne avrebbero potuto immaginare.   

Quindi risulta pleonastico che i pubblicitari, dietro stimolo dell’azienda o per proprio intuito o per necessità di “story telling”, attingano all’epopea e alla figura del fondatore dell’azienda per raccontare ed esaltare l’origine del prodotto e imprimergli un sigillo di qualità e riconoscibilità unico. A volte negli spot il fondatore dell’azienda viene menzionato come in un recente commercial della Kellog’s. Altre volte non si è mostrato, ma il fondatore irrompe nello spot attraverso una telefonata per rettificare il testimonial come nel celebre spot del Riso Scotti con testimonial Jerry Scotti. Infine normalmente negli spot si rievoca il mondo, la storia, i valori, le speranze, gli obiettivi, la missione del fondatore mostrando – attraverso computer grafica, scenografie e attori somiglianti – il fondatore mentre agisce nella sua epoca come nel famoso spot Barilla in cui si rappresenta Pietro Barilla e l’originaria bottega artigiana del 1877 in cui produce e vende pasta e pane.

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Dalla fine degli anni ’80, e soprattutto dagli anni ’90 in poi, abbiamo visto irrompere “il fondatore dell’azienda” nella pubblicità anche nella inedita veste di testimonial “emblema” della bontà dei suoi prodotti. Da questo punto di vista Giovanni Rana e la saga pubblicitaria creata originariamente dal pubblicitario Aldo Biasi – che tutt’ora prosegue presentandoci Giovanni Rana e i suoi tortellini nei contesti più disparati – non può non essere menzionata come archetipo di questa tipologia di pubblicità. Anche Francesco Amadori, dell’omonima azienda di prodotti a base di carne, si inserisce nel medesimo filone. Mentre Marco Roveda e il suo “sogno nel cassetto”, sono raccontati negli stessi anni da uno straordinario spot di 30 secondi in cui si presenta l’origine delle “Fattorie Scaldasole” (la prima azienda italiana negli anni ’90 nel campo dell’agricoltura biologica, azienda poi venduta alla Plasmon).

Sempre tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni novanta, l’epopea e la figura dell’imprenditore – forse anche a causa dell’ormai consolidata cultura dello yuppismo – è tale che addirittura un prodotto chiama come testimonial un imprenditore di un’altra azienda. È questo il caso di Luciano Benetton, proprietario della nota marca di prodotti di abbigliamento, che è testimonial in un bucolico spot del 1987 della carta di credito American Express.

E l’altra metà del cielo? Dove sono le storie, le narrazioni, le epopee delle imprenditrici italiane ed estere? Ripercorrendo mentalmente la storia della pubblicità sono pochissimi e sporadici nel tempo le campagne pubblicitarie incentrate sulla figura dell’“imprenditrice” sia come fondatrice storica o proprietaria attuale, rappresentata sia mediante una iconografia immaginifica o in carne ed ossa. In quest’ambito, forse uno degli spot più famosi è stato in Italia quello per le “Millefoglie” della Vicenzi (istituzione dolciaria da più di un secolo) pubblicizzate negli anni ’80 con varie scenette che vedono protagonista la stessa Matilde Vicenzi mentre è intenta a gestire imprenditorialmente la sua azienda.

ll’estero abbiamo qualche esempio in più e di maggiore rilevanza come Coco Chanel, una donna rivoluzionaria e moderna evocata nella pubblicità della sua impresa. Una epopea aziendale quella di Coco Chanel che vale la pena ripercorrere. Infatti, Gabrielle Chanel, una povera orfanella cresciuta in un convento e poi impiegata in un negozio di stoffe, riuscì ad emergere grazie al proprio carattere, al proprio carisma, al proprio coraggio. E anche grazie alla fortuna divenne erede di una dinastia di industrie tessili e capì che avrebbe potuto sfruttare il momento. Tutti infatti le chiedevano dove comprasse i deliziosi cappellini che indossava sempre. Cappelli che Chanel creava e realizzava da sola. La sua carriera iniziò così, come disegnatrice di cappelli nel 1908. La sua fama crebbe rapidamente fino a raggiungere l’apice con l’“invenzione” del mitico profumo Chanel n.5 che Marilyn Monroe diceva di amare al punto tale di andare a letto “vestita” solo di una sua goccia. Un profumo che, a detta della stilista, avrebbe dovuto incarnare una sensualità e una femminilità senza tempo. Femminilità che veniva sprigionata anche dal tailleur di sua invenzione, dal vestiario di sua produzione che prendeva sempre spunto dal vestiario maschile e che non passava mai di moda.

Ma la “straordinarietà” (nella sua duplice accezione di “sbalorditivo” e di “non consueto”) delle rappresentazioni delle donne imprenditrici nella pubblicità deve indurci a riflettere. Come sempre, ciò che intriga uno studioso della comunicazione pubblicitaria come me, non è solo ciò e chi viene rappresentato nell’advertising, ma ciò che viene a mancare. In questo caso, quel che rammarica, preoccupa e probabilmente indigna non è solo la scarsa presenza quantitativa, ma la grave assenza “di narrazioni” o – per dirla in termini sociologici – di una adeguata rappresentazione sociale nella pubblicità della figura della donna imprenditrice. Infatti, della “imprenditrice” manca completamente una rappresentazione eroica, pionieristica ed intrepida che ne evidenzi creatività, forza, ingegno e coraggio tanto quanto avviene per i colleghi uomini.

In conclusione, al danno si aggiunge poi la beffa, perché drammaticamente si rileva che questa assenza nella rappresentazione sociale delle donne nella pubblicità (che ricordo essere uno dei linguaggi più persuasivi e ineludibili della modernità), rallenta – e non stimola – processi emulativi nella società tra le giovani e le bambine.   

(Nella foto, dall’alto verso il basso, e da sinistra verso destra:  Matilde Vicenzi (attrice che la interpreta nello spot), Francesco Amadori, Giovanni Rana, Luciano Benetton, Marco Roveda, Clemente Ciccarelli, Coco Chanel, Pietro Barilla – attore che lo interpreta nello spot). 

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