Presentato il 6° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale che mette in luce come giovani e donne siano ancora alle prese con il lavoro precario
Lavoro precario per giovani e soprattutto donne, alle quali vengono applicate forme contrattuali non standard per il 46,3% delle giovani lavoratrici e part-time involontario per il 20,9%.
Il mercato del lavoro mette da parte i giovani
I giovani vengono selezionati solo nell’ambito del lavoro precario facendo sì che nell’arco degli anni si configuri un ambiente di lavoro sempre più “anziano-centrico”. Nel decennio 2012-2022 gli occupati 15-34enni sono diminuiti del 7,6% e quelli con 35-49 anni del 14,8%, mentre i 50-64enni sono aumentati del 40,8% e quelli con 65 anni e oltre del 68,9%. I lavoratori invecchiano e in futuro ce ne saranno sempre meno: si stima che nel 2040 le forze di lavoro nel complesso saranno diminuite dell’1,6%, come esito della radicale transizione demografica che il Paese sta vivendo. Questi i primi risultati che saltano all’occhio relativi all’indagine effettuata dal Censis per il 6° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, presentato da Francesco Maietta, responsabile dell’Area Consumer, mercati privati, istituzioni del Censis, Pierangelo Albini, direttore dell’Area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria, Francesca Re David, segretario confederale della Cgil, Giulio Romani, segretario confederale della Cisl, Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil, Chiara Gribaudo, membro della XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati, Alberto Perfumo, amministratore delegato di Eudaimon, e Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis.
Lavoro precario per giovani e donne
Il lavoro precario e il lavoro mobile, poiché dall’analisi dei primi nove mesi del 2022 è risultato che ogni giorno in media ben 8.500 italiani si sono dimessi dal lavoro: il 30,1% in più rispetto allo stesso periodo del 2019, prima della pandemia. Nello stesso periodo, ogni giorno in media 49.500 italiani hanno iniziato un nuovo lavoro: il 6,2% in più rispetto al 2019. Sono numeri che fotografano un mercato del lavoro molto dinamico, in cui la ricerca di una occupazione migliore (che per i giovani significa meno precaria) è la bussola che orienta le decisioni e i comportamenti. La fascia della precarietà è infatti ancora ampia: complessivamente il 21,3% dei lavoratori italiani è occupato con forme contrattuali non standard (tempo determinato, part-time, collaborazioni). La percentuale oscilla dal 27,9% delle lavoratrici donne (rispetto al 16,5% degli uomini) al 39,3% dei lavoratori 15-34enni. Tra gli occupati giovani, la percentuale dei contratti non standard raggiunge il 46,3% tra le femmine, rispetto al 34,2% dei maschi. Il part-time involontario – con meno ore lavorate e quindi retribuzioni più basse – coinvolge il 10,3% dei lavoratori italiani: il 16,7% delle donne (rispetto al 5,7% degli uomini) e il 13,9% dei 15-34enni. Tra gli occupati giovani, la percentuale del part-time involontario raggiunge il 20,9% tra le femmine e si ferma al 9,0% tra i maschi. La precarietà è giovane e ancor più donna e alimenta una parte significativa della mobilità nel mercato del lavoro.
Cambiare lavoro
Non solo lavoro precario ma anche lavoro che non piace. Secondo i dati del Rapporto il 46,7% degli occupati italiani se potesse lascerebbe l’attuale lavoro. Lo farebbe il 50,4% dei giovani e il 45,8% degli adulti, il 58,6% degli operai, il 41,6% degli impiegati e solo il 26,9% dei dirigenti. Anche perché il 64,4% degli occupati dichiara di lavorare solo per ricavare i soldi necessari per vivere e fare le cose che piacciono, senza altre motivazioni esistenziali. Questo vale in particolare per il 69,7% dei giovani e per il 75,6% degli operai.
Lavoro precario e voglia di cambiarlo
La voglia di cambiare lavoro è forte per diversi motivi: innanzitutto, le difficoltà di carriera: per il 65,0% degli occupati le opportunità di avanzamento professionale sono insufficienti; in secondo luogo, le retribuzioni insoddisfacenti: il 44,2% degli occupati considera lo stipendio percepito non adeguato alle proprie esigenze (vale di più per i giovani: il 53,0%); c’è poi la paura di perdere il posto di lavoro: teme di potersi ritrovare disoccupato nel prossimo futuro il 42,6% dei lavoratori (il dato aumenta al 51,6% tra gli addetti delle piccole imprese, rispetto al 34,9% di quelli assunti nelle grandi aziende).
Smart working sì o no?
Trovare un equilibrio tra lavoro in sede e lavoro altrove sembra essere la formula migliore in quanto soddisfa sia gli occupati sia i datori. Oggi lavora da remoto il 12,2% degli occupati (la percentuale era pari al 4,9% nel 2019): il lavoro da casa piace perché per l’81,3% consente una migliore conciliazione tra famiglia, vita privata e lavoro, per il 74,8% riduce lo stress legato al lavoro in presenza, per il 74,1% permette di lavorare in contesti migliori del luogo di lavoro deputato, per il 70,4% migliora più in generale la qualità della vita. Però, per il 72,4% il giudizio è positivo solo se lo smart working è alternato con giorni di lavoro in presenza. Il 71,8% dei lavoratori intervistati dichiara che non è vero che in smart working si lavora di meno e che anzi, secondo il 52,8%, si generano benefici anche per i datori di lavoro perché (per il 75,9%) fa risparmiare le aziende trasferendo alcuni costi direttamente sui lavoratori (ad esempio le bollette dell’energia) e (per il 65,1%) innalza la produttività del lavoro. Naturalmente questo è ciò che pensano i dipendenti, per il 54% dei quali l’unico grande rischio sarebbe l’erosione del senso di appartenenza aziendale. Sarebbe utile verificare cosa ne pensano i datori di lavoro e i clienti o gli utenti dei servizi erogati tramite smart working…
Il welfare aziendale come miglioramento della qualità della vita
Oggi gli strumenti di welfare aziendale sono conosciuti dal 64,9% dei lavoratori ma solo il 19,8% sa con precisione di cosa si tratti. In merito alle tipologie di servizi e prestazioni maggiormente richieste, il 79,4% dei lavoratori desidera un supporto personalizzato, tagliato su misura rispetto alle proprie esigenze, il 79,2% chiede maggiori opportunità di conciliazione tra vita familiare e lavoro, il 79,1% integrazioni del reddito, il 78% un aiuto per risolvere i problemi burocratici nel rapporto con le amministrazioni pubbliche, il 68,1% una consulenza psicologica per affrontare le difficoltà quotidiane. Se le integrazioni del reddito sono largamente apprezzate, dal welfare aziendale i lavoratori si attendono anche un utile supporto per raggiungere una più alta qualità della vita. Il welfare aziendale sarà sempre di più uno strumento essenziale per i responsabili delle risorse umane per rimotivare chi è già in azienda e per attrarre nuovi lavoratori, in particolare i giovani.