Made in Italy

Obiettivo Made in Italy sostenibile

wwf-seri

Obiettivo Made in Italy sostenibile

Presentato il nuovo studio WWF-SERI sull’impatto dei mercati sulle risorse naturali. Si richiede alle imprese di assumersi la responsabilità etica in relazione alle loro produzioni e al commercio dei loro prodotti. Le imprese italiane che importano  caffè, cotone e carta sono quelle che pesano di più sull’ambiente

Occorre trasformare il mercato e renderlo più sostenibile dall’ambiente riducendo il “fardello ecologico” che negli ultimi 30 anni ha portato all’aumento del 65% prelievo delle risorse naturali e sta minacciando ben 35 aree del globo prioritarie per la tutela della biodiversità. Un allarme lanciato dal WWF in vista del summit mondiale sullo sviluppo sostenibile Rio+20.

I dati dello studio dal titolo “Market Transformation . Sostenibilità e mercati delle risorse primarie” realizzato dal WWF e dal SERI (Sustainable Europe Research Institute) evidenziano come tra il 1980 e il 2007 l’estrazione di risorse vergini sia passata da 15 miliardi di tonnellate annue a 20 miliardi di tonnellate annue (+65%) a livello globale.
Abbiamo estratto e consumato 8 miliardi di metri cubi di acqua, sottratto all’agricoltura e alle specie naturali 8,5 milioni di ettari di terra, eroso 38 milioni di tonnellate di minerali, e, in cambio, immesso nell’atmosfera più di 34 milioni di tonnellate di CO2. Tali cifre potrebbero far pensare a dati relativi all’intera popolazione terrestre, invece no: sono dati relativi alle importazioni italiane di quattro risorse naturali collegate ai settori industriali strategici del mercato italiano: il Tessile, l’Alimentare e il Cartario. Questi settori importano infatti caffè per 470 mila tonnellate l’anno, carta e pasta di carta per 7,6 milioni di tonnellate l’anno, cotone per 670 mila tonnellate l’anno e olio di palma per 720mila tonnellate l’anno.
Il prelievo e la filiera produttiva connessa determinano l’impatto ambientale sopra menzionato ed è per questa ragione che il WWF e le altre organizzazioni per la tutela ambientale chiedono alle imprese di assumersi la responsabilità etica delle proprie scelte economiche. Affinché gli interessi delle aziende coincidano con quelli della natura e dell’umanità.

Il mercato italiano pesa molto sull’ambiente con le sue 944 imprese nel settore del caffè (come Lavazza, Zanetti e Illy), le sue 4.181 imprese nel settore cartario (come il gruppo Sofidel), le sue 18.798 imprese tessili e le sue 36.200 imprese che si occupano di abbigliamento. E, per quanto riguarda le tonnellate di olio di palma importate si fa invece riferimento ad aziende di rilevanza internazionale come ENI per i biocombustibili e Autogrill, Ferrero e Barilla per i prodotti alimentari.

Le 35 aree prioritarie per la tutela della biodiversità sono state individuate dal WWF e segnalate in una mappa che alleghiamo all’articolo. Esse vengono sottoposte a depredazione naturale allo scopo di produrre le materie prime necessarie alle importazioni italiane di queste aziende. Tali aree sono situate in zone che vanno dal Mediterraneo al Bacino del Congo, dai Mari Antartici alle Galapagos. Esse vengono minacciate dagli allevamenti e dalle colture estensive, dal sovra sfruttamento degli stock ittici e dall’aacquacoltura.

 

Una soluzione etica

La proposta che il WWF presenta alle imprese è quella di appellarsi anzitutto al proprio senso di responsabilità riducendo il proprio impatto sulle risorse naturali, anche perché continuando in questo modo il futuro dell’economia sarebbe decisamente bloccato. Le soluzioni pratiche sono quelle di trasformare pertanto il mercato promuovendo fonti e filiere sostenibili (cosa che tra l’altro gioverebbe alla propria immagine e farebbe aumentare le vendite).
A tale scopo il WWF ha predisposto un vademecum che contiene proposte specifiche che vanno dall’adesione a standard di sostenibilità ai sistemi di certificazione riconosciuti a livello internazionale fino all’abolizione delle tariffe sull’importazione di materie certificate.
Le proposte sono rivolte non solo alle imprese ma anche alle istituzioni, alle quali si richiede di trasferire la pressione fiscale dalla forza-lavoro all’uso delle risorse naturali e di realizzare policy che portino a un consumo realmente consapevole delle risorse e dei prodotti finali.

Le imprese italiane, per essere etiche, dovrebbero ridurre entro il 2030 a zero la domanda di terreno necessario a produrre i beni oggetto delle proprie importazioni ed entro il 2050 ridurre dell’80% i propri prelievi di materiali utilizzati e del 95% le emissioni di gas serra. Anche per quanto riguarda i consumi di acqua, potrebbero portare la propria necessità idrica al 10% delle risorse disponibili.

Rio+20Il direttore scientifico del WWF Italia, Gianfranco Bologna, ha dichiarato che “l’umanità ha superato  i 7 miliardi di abitanti e ricava risorse naturali dalla terra per oltre 60 miliardi di tonnellate l’anno (erano 40 nel 1980, saranno 100 miliardi entro il 2030 se continuiamo su questa strada), un peso ecologico totalmente insostenibile per il futuro. Più che mai in una situazione di crisi economico-finanziaria che dura ormai da anni, dobbiamo dare la massima centralità al capitale naturale, alla sua cura, al suo ripristino, perché senza di esso l’intera economia mondiale non ha futuro. La Conferenza di Rio+20 sarà un momento molto importante, ed è fondamentale che istituzioni, consumatori e soprattutto imprese, dalle grandi multinazionali alle piccole e medie imprese dei nostri distretti industriali, si assumano la responsabilità di trasformare i mercati e condurli a modelli meno insostenibili, sviluppando una produzione di qualità anche sotto il profilo ambientale”.

Helen Von Hoeven, direttore della Market Transformation Initiative WWF International, ha aggiunto che “La Market Transformation Initiative opera con i protagonisti del mercato per ridurre l’impatto della produzione globale sulle risorse naturali, prioritarie tanto per la salute del pianeta quanto per la nostra economia. Produrre con meno risorse, ridurre gli sprechi, seguire certificazioni e standard di sostenibilità sono tra le più importanti strade percorribili. Oggi esiste un mercato per chi produce secondo standard migliori, e il rispetto per l’ambiente e le società umane può trasformarsi in un’opportunità concreta, in grado di coinvolgere i consumatori e gli altri attori del mercato in una svolta responsabile di cui non possiamo più fare a meno”. 

Qui sotto riportiamo la scheda predisposta dal WWF su quanto le importazioni italiane pesino rispetto all’ambiente:

Il caffè

caffeLe importazioni italiane di caffè (circa 470mila tonnellate nel solo 2008) gravano sull’ambiente con 1400 milioni di metri cubi acqua, circa 4 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti, 1,6 milioni di ettari l’anno – ovvero più della superficie dell’intera Calabria – 700mila tonnellate di materiali biotici e 6,5 milioni di tonnellate di materiali abiotici. In generale, per produrre un chilo di caffè sono necessari 12-14 mq di terra arabile, mentre sono circa 10 milioni gli ettari di terra destinati globalmente alla coltivazione del caffè.
Le importazioni italiane di caffè in forma grezza, torreffata o decaffeinata sono cresciute del 130% dal 2000 a oggi e provengono soprattutto da Brasile (33%), Vietnam (16%) e India (10%). (Vedi mappa importazioni italiane). Nello stesso periodo invece le esportazioni sono aumentate del 195%.
La produzione mondiale invece ammonta a oltre 7,5 milioni di tonnellate ed è aumentata dell’8% dal 2004 al 2009.
Tra i principali danni ambientali e sociali ci sono: il taglio delle foreste pluviali, rischio d’estinzione per il rinoceronte di Sumatra, elefante indiano e tigre di Sumatra. Le aree più colpite sono: Amazzonia, Choco-Darien, laghi africani del Rift, Sumatra, Borneo e Nuova Guinea, Ghats Occidentali (India) e area del grande Mekong. In particolare nell’Isola di Sumatra l’area ricoperta da foreste è passata dal 60%, nel 1960, ad appena il 10% nel 2010.

La carta

CartieraSui banchi di scuola o sulle scrivanie in ufficio approda ogni giorno, sotto un’altra veste, il nostro ‘fardello’ quotidiano ‘nascosto’ in quaderni, libri, block notes ecc. Lo stesso vale per carta per usi igienico-sanitari, imballaggi di numerosi prodotti, giornali ecc. Alle importazioni italiane di carta e pasta-carta, infatti, (circa 7,6 milioni di tonnellate) è riconducibile l’utilizzo di 900 milioni di metri cubi d’acqua, l’emissione di 8,5 milioni di tonnellate di gas serra (CO2-equivalente), 5,8 milioni di ettari di terra l’anno – pari alla superficie di Campania, Calabria, Basilicata e puglia messe assieme – 16 milioni di materiali biotici e 17 milioni di materiali abiotici.
Questa risorsa arriva in Italia soprattutto da Germania (19%), Svezia (14%), Francia (10%), USA (8%), Austria (7%), Brasile (6%), Spagna (5%).
I principali problemi ambientali e sociali sono: deforestazione e trasformazione delle foreste, taglio illegale, conflitti sociali, minaccia degli habitat naturali, violazione dei diritti umani e distruzione delle foreste protette. Le aree prioritarie più colpite sono: Amazzonia, foresta Atlantica brasiliana, Cerrado/Pantanal, Borneo, foreste Valdiviane, Altai Sayan, Amur Heilong, Sumatra, area del Mekong, fiumi degli USA sud-orientali.
Circa la metà del legno tagliato sul pianeta per usi commerciali è usato per produrre carta, che “occupa” 130 milioni di ettari di terra e solo il 10% della popolazione mondiale (Europei e Nord Americani) consuma circa la metà dei prodotti. Nel 2009 la produzione mondiale di carta e cartone è stata di 377 milioni di tonnellate.

Il cotone

Il fardello ecologico che portano con sé le importazioni italiane di cotone (circa 670mila tonnellate di cotone e derivati nel solo 2009) equivale a: un consumo di 5.300 milioni di metri cubi di acqua, l’emissione di circa 20 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti di gas serra, 944mila ettari di terra l’anno – superficie paragonabile a quella delle Marche – 955 migliaia di tonnellate di materiali biotici e 13 milioni di tonnellate di materiali abiotici.
L’Italia importa il cotone prevalentemente da: Cina (20%), Turchia (13%), Pakistan (11%), India (9%), Bangladesh (5%).
La produzione mondiale è di circa 25 milioni di tonnellate, di cui l’80% proveniente da 5 soli Paesi: Cina (34%), India (21%), USA (12%), Pakistan (8%) e Brasile (5%). Il 99% dei produttori, cui si deve il 75% del prodotto, si trova nei Paesi in via di sviluppo. Il consumo pro-capite è di 6,8 kg l’anno (di 17,7 kg nei Paesi sviluppati).
I principali danni ambientali e sociali sono: ingente consumo di acqua ed energia, uso di pesticidi altamente inquinanti (in particolare fertilizzanti azotati sintetici) per l’ambiente e dannosi per la salute umana: si stimano circa 20mila morti l’anno. Condizioni di lavoro precarie che talvolta sconfinano nello sfruttamento minorile e nella schiavitù. Non quantificabili i danni alla fauna selvatica. Le aree prioritarie maggiormente interessate sono: lo Yangtze, l’Amur Heilong, l’Himalaya, i Gaths Occidentali, il Golfo di California, il Delta dell’Indo, l’Amazzonia, le foresta Atlantica brasiliana (Mata Atlantica), il Cerrado/Pantanal.

L’olio di palma

Il fardello ecologico dell’olio di palma importato in Italia (nel 2010 sono arrivate circa 1.100.000 tonnellate di olio grezzo) è costituito da: un consumo di 410 milioni di metri cubi di acqua, 2 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti, 210mila ettari di terreno l’anno – un’area grande quanto la provincia d’Ancona -, circa 3 milioni di tonnellate di materiali biotici e circa 1,2 milioni tonnellate di materiali abiotici.
La gran parte dell’olio di palma giunge nel nostro Paese da Indonesia (71%), Malesia (13%), Thailandia (7%), Papua Nuova Guinea (6%).
L’utilizzo per i principali prodotti derivati è così suddiviso: 185mila tonnellate per i biocarburanti, 115mila per i prodotti chimici organici, 50mila per le margarine e circa 200mila tonnellate complessive per prodotti il cui contenuto non è facilmente determinabile (cibi contenenti grassi vegetali, saponi e cosmetici).
Una ‘zavorra ecologica’ in aumento se si considera che la produzione mondiale di olio di palma negli ultimi 30 anni è passata da 4,9 a 49 milioni di tonnellate e che rispetto al 2000 ci si aspetta una crescita della domanda del 100% nel 2020 e del 200% nel 2050, anche a causa degli investimenti dei produttori di biodiesel.
I principali danni ambientali e sociali collegati alla sua filiera produttiva sono: perdita di habitat, erosione e degrado del suolo, inquinamento chimico delle acque e dispersione di pesticidi che giungono sino agli ecosistemi marini, sfruttamento e distruzione degli stili di vita delle popolazioni indigene. Le aree più colpite sono: Borneo, Sumatra, Papua Nuova Guinea, Amazzonia, Bacino del Congo.

Allegati

pdf cartina per Market Transformation.pdf

Potrebbe interessarti