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Cervelli in fuga… ma non troppo

presentazione-ricerca-isfolI ricercatori italiani cambiano regione (prima di lasciare l’Italia) mentre le donne sono più stanziali e hanno più difficoltà a raggiungere posizioni di alto livello. I dati di una ricerca Isfol

di Daniela Delli Noci

La mobilità geografica dei dottori di ricerca è stata messa sotto la lente dall’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che ha realizzato un’indagine i cui risultati sono stati presentati di recente a Roma. 

Cosa emerge? A sei anni dal conseguimento del titolo, si può notare come la migrazione più consistente sia quella in ambito italiano, piuttosto che verso l’estero: le regioni con maggiore potere attrattivo sono la Lombardia e il Lazio, che a loro volta esportano una gran quantità di ricercatori.
Il Friuli detiene il primato della fuga di ricercatori, mentre il Piemonte e la Sardegna hanno quello della scarsa mobilità. Come da manuale, il maggiore svuotamento di capitale umano riguarda il Sud Italia.
“Le motivazioni della fuga? Remunerazione più alta e possibilità di trovare un lavoro più attinente al percorso di dottorato effettuato. Spesso nel nostro paese si è costretti a deviare rispetto al proprio percorso professionale” ha sottolineato Paola Nicastro, direttore generale Isfol.
Grafici, tabelle e risultati sono stati riportati nel volume “Non sempre mobili”, a cura delle autrici della ricerca, Francesca Bergamante, Tiziana Canal e Valentina Gualtieri.

ricercatrici“Il nostro problema non è tanto la fuga di cervelli” ha precisato Bruno Busacca, responsabile della segreteria tecnica del ministro del Lavoro “quanto il fatto che ne importiamo pochi e che, una volta usciti, non riusciamo a farli ritornare. Uno scambio alla pari è l’obiettivo da raggiungere.” La mobilità è positiva, dunque, a condizione che si realizzi anche in entrata.

Un tempo, Roma e Milano erano le mete più ambite per sviluppare la propria carriera, non si pensava ad andare all’estero. Oggi la situazione è cambiata e sarebbe il caso di riflettere sulle caratteristiche del nostro sistema produttivo, sulla capacità di attrazione del sistema universitario e sui rapporti tra scuola e mondo del lavoro.
“Nel 2012, all’interno del macro progetto Isfol sul capitale umano” ha detto Valentina Gualtieri “è stato inserito quello sui dottori di ricerca, eccellenza del paese, anche in considerazione dell’investimento consistente da parte dello Stato: un ricercatore costa circa 89mila euro, più i costi indiretti in caso di emigrazione.”

L’indagine. E’ stato preso come riferimento il censimento Istat del 2006 ed è stato individuato un campione di quasi 10mila individui, di età compresa tra 25 e 49 anni. L’indagine ha riguardato residenza, situazione occupazionale, storia accademica, redditi, caratteristiche anagrafiche e familiari del ricercatore.
“La quasi totalità ha un lavoro, a sei anni di distanza: il 51,1% delle donne e il 48,9% degli uomini. I dottori di ricerca sono nella stragrande maggioranza italiani, solo il 2% proviene dall’estero. Quanto al luogo d’origine, il 38,9% proviene dal Meridione, il 23,2% dal Centro, il 16,1% dal Nord-Est e il 18,8% dal Nord-Ovest, in particolare dalle regioni più popolose, Lombardia, Lazio, Sicilia e Campania.”
La mobilità – che riguarda per il 12,2% l’ambito italiano e per il 7,5% quello estero – caratterizza gli uomini più giovani, che hanno studiato materie scientifiche. Le mete prescelte sono principalmente la Francia, gli USA, il Regno Unito e la Germania. Come sottolineato da Valentina Gualtieri, migrano soprattutto i ricercatori con contratto flessibile, che in Italia, al contrario di altri paesi, è poco tutelato; inoltre, a parità di condizioni, i dottori all’estero hanno un reddito che supera del 50% quello dei colleghi rimasti in Italia.
“La mobilità viene frenata dalla componente affettiva nel 40,3% dei casi” ha affermato Francesca Bergamante “e tale componente aumenta al diminuire della mobilità da parte delle donne.” Sarebbe necessario sviluppare network forti per recuperare i cervelli in fuga. Gli incentivi fiscali messi a disposizione per favorire il loro rientro non sembrano avere avuto un grande successo. A giudicare dalle intenzioni di mobilità futura espresse dai dottori di ricerca, si direbbe che a ‘respingere’ sia l’Italia nel suo complesso, piuttosto che le singole realtà regionali.

La ricerca ha analizzato inoltre le relazioni tra livello di istruzione, famiglia di origine e attuale, nonché l’impatto di queste componenti sulla mobilità sociale. Il retroterra familiare e culturale dei dottori di ricerca è di solito eccezionale: i genitori hanno nella maggior parte dei casi un titolo di studio medio-alto e una posizione professionale ad alta qualificazione. Pochissimi sono i ricercatori i cui genitori svolgono professioni di livello inferiore. E’ la “dote” familiare, dunque, a fare la differenza. Oltre il 53% dei ricercatori può contare su tale importante capitale d’origine e solo il 2,6% proviene da contesti meno favorevoli.
“Al crescere del titolo di studio o del titolo professionale dei genitori, aumenta la mobilità verso l’estero” ha detto Tiziana Canal. “Le donne sono svantaggiate anche rispetto all’istruzione: il 28% degli uomini con dote medio-bassa raggiunge posizioni alte, a fronte del 17,5% delle donne con analoga dote familiare.”Chi parte da posizioni medio-basse, inoltre, raggiunge il successo solo spostandosi all’estero.
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E’ interessante notare come la mobilità sia più contenuta per coloro che sono iscritti agli Albi professionali e che in qualche modo ‘ereditano’ la posizione professionale. Le categorie più fedeli al luogo d’origine, infatti, sono quelle degli architetti, dei medici, dei giuristi.

I partner hanno lo stesso livello professionale dei ricercatori: sono altamente qualificati. “L’OCSE ha messo in evidenza come in Italia stia emergendo la tendenza a fare famiglia con persone che hanno la stessa classe di reddito e analoga posizione professionale” ha puntualizzato la ricercatrice Isfol “e nel nostro paese la mobilità sociale è un fenomeno che si è arrestato. I nati dopo il 1970 non riescono ad avere una posizione migliore rispetto ai loro genitori”.
In conclusione: la famiglia d’origine e quella attuale influenzano i percorsi professionali, la dote familiare e l’istruzione sono meno redditizie per le donne, la mobilità e l’espatrio mostrano vantaggi consistenti per chi parte da posizioni più basse.
Spetta alle politiche trovare la soluzione per superare immobilismo sociale e scarsa equità, per bilanciare le entrate e le uscite di capitale umano altamente qualificato.

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