Normative

Come cambia il mondo del lavoro

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In occasione del Tour Adp 2015 alcune riflessioni a partire dal Jobs Act

di Cristina Mazzani, giornalista

La risposta alle imprese che chiedevano maggiore flessibilità, negli intenti del Governo, è arrivata con il Jobs Act. Sarà poi il futuro a dimostrare se tale risposta è adeguata.

Certo è che ora le imprese e i lavoratori devono fare i conti con una normativa nuova, che, come si vedrà va a coesistere con la vecchia.
Il tour Adp (società attiva in ambito Hcm, human capital management), che si è svolto in cinque tappe (Torino, Bari, Milano, Padova, Roma), ha avuto per titolo proprio “Le risorse umane e il Mondo del Lavoro dopo il Jobs Act” per ragionare con gli esperti del settore sulle nuove modalità di impiego e, in generale, su come sta cambiando il mondo del lavoro.

“Senza dubbio” ha commentato Stefano Poliani, presidente Giovani Imprenditori Confindustria Lombardia “il Jobs Act è stato accolto con fiducia, ci ha appassionato, crediamo molto nelle sue potenzialità, oltre che per la maggior flessibilità, per gli incentivi che sono stati previsti”.
“Sono passate poche settimane” ha dichiarato Nicola Uva, strategy e marketing director Adp “dall’entrata in vigore del Jobs Act (il 7 marzo 2015) ma ci sono già interessanti segnalazioni circa come il provvedimento si va a inserire nella relazione azienda-collaboratore”.
Una relazione che, secondo Uva, inevitabilmente era già cambiata a causa di vari fenomeni: prima di tutto la forte crisi iniziata nel 2008, ma anche le innovazioni tecnologiche – quali gli smartphone e i social media – che promuovono nuove dinamiche lavorative, da un lato, e diversi stili di consumo, dall’altro.

“La legge per la riforma del mercato del lavoro (il cosiddetto Jobs Act)” ha spiegato Roberto Respinti, managing partner Studio Associato Pagani “prevede 5 diverse deleghe al Governo, una di queste riguarda proprio la conciliazione vita/lavoro. Ma il primo fine è stato quello di incrementare le assunzioni a tempo indeterminato, rendendolo più competitivo rispetto a quello a tempo determinato grazie all’esonero contributivo per i primi tre anni. Tale incremento si è già verificato anche se non è dato sapere se si è trattato di nuovi ingressi nel mercato del lavoro o di passaggi di contratto. Come si sa, di contro, il contratto a tutele crescenti (applicato solo ai nuovi assunti – il che vedrà collaborare tra loro colleghi cui si applicano le vecchie regole e altri per cui il rapporto di lavoro sarà regolato nel quadro del Jobs act) rende più facile licenziare, più correttamente lo rende meno oneroso per le aziende. Allo stesso tempo, però, è stato fatto un importante lavoro sugli ammortizzatori sociali, un lavoro di ampliamento per coinvolgere la maggior parte possibile di disoccupati”.

Osservando più nello specifico la situazione attuale, ha però continuato Uva, “gli ambiti sui cui inevitabilmente coloro che si occupano di lavoro devono ragionare sono: un’aumentata flessibilità di relazione tra il lavoratore e la propria società, la staffetta generazionale, l’internazionalizzazione del business, l’organizzazione liquida e la gestione dei talenti. Analizziamoli nel dettaglio: in primo luogo, il Jobs Act si colloca sullo sfondo di un desiderio di flessibilità che vede la possibilità di essere realizzato grazie all’utilizzo di strumenti che consentono il cosiddetto smart working, al fine di una più efficiente ed efficace conciliazione di vita professionale e vita privata. Una opportunità che già era stata agevolata, o anche resa inevitabile, dalle varie tipologie di contratto previste nel passato più o meno recente (dall’apprendistato ai contratti a progetto al lavoro occasionale). L’allungamento della aspettativa di vita ha, in secondo luogo, determinata una serie di riforme pensionistiche: dal 1992 ce ne è stata uno ogni 3 anni che hanno aumentato la soglia dell’età pensionabile. Questo significa che i neo assunti dovranno convivere con persone che hanno lavorato e lavorano in modo diverso da come oggi è possibile fare, il che evidenzia le difficoltà di quella staffetta lavorativa che, spesso, non è accompagnata dal sostegno nell’apprendimento o da quell’attività che potremmo chiamare di ‘reverse mentoring’.

“Ancora, non c’è dubbio circa il fatto che le aziende italiane che oggi sono in grado di crescere sono quelle che si sono rivolte ai mercati esteri (e queste non sono poche, secondo l’Ice: sono più di 24mila le società italiane che hanno un ufficio all’estero).
“In merito all’organizzazione liquida, è il sociologo e filosofo polacco a dichiarare: ‘Le condizioni attuali in cui le persone operano nei contesti aziendali, si modificano con una velocità maggiore rispetto alla capacità delle persone stesse di consolidare metodologie e abitudini’.
“Ugualmente, è sempre più complicato classificare i consumatori così come gli utenti dei servizi, il che pone molte sfide…
A fronte di tutto questo, il 65% delle aziende (secondo il Top Employer Institute) ha difficoltà nel trovare manager e professionisti adeguati. Oppure forse, più correttamente, si fa fatica a realizzare le condizioni per poter far si che il talento delle persone si esprima.
Proprio in questi ambiti, una realtà come Adp consente di supportare le aziende per far si che le loro persone possano decretare il successo del business nel suo complesso”.

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