Lavoro Mestieri e professioni

Professione infermiera ai tempi del Covid-19

Come è cambiata la professione di infermiera ai tempi del Covid-19? Intervista alla presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI) Barbara Mangiacavalli

Quella di infermiera in Italia è una delle rare professioni nate (nel 1955 come collegio professionale) come lavoro tipicamente femminile che nel tempo (dal 1971) ha “inglobato” anche gli uomini. I cambiamenti che si sono susseguiti negli anni sono stati molti e oggi chi esercita questa professione deve seguire codici deontologici, avere una laurea, può prendere un dottorato di ricerca. Ma oggi, per via del Covid-19, essere infermiera è divenuto ancora più complicato, tra dispositivi da indossare, lavoro massacrante, coinvolgimento emotivo, isolamento. Per questo abbiamo voluto approfondire l’argomento intervistando la persona più indicata: Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI – www.fnopi.it). Le nostre domande sono state volutamente poste per mostrare soprattutto il volto femminile della professione.

Barbara Mangiacavalli
presidente FNOPI

Dott.ssa Mangiacavalli, come è cambiato il lavoro dell’infermiera con l’attuale emergenza sanitaria?
È cambiato sicuramente come lo è per tutti gli altri professionisti sanitari: le donne tra gli infermieri rappresentano circa il 77% dei professionisti in generale e quasi il 78% dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale (ma raggiungono l’82% nelle Regioni del Nord più colpite da Covid-19) e finora quindi c’è una fortissima loro prevalenza. Il lavoro con Covid-19 è cambiato tuttavia sotto l’aspetto della destinazione delle unità di organico disponibili che sono state dedicate in gran parte alla pandemia: ci sono 180mila infermieri in prima linea su 270mila circa dipendenti dal Servizio sanitario nazionale, oltre ai liberi professionisti che volontariamente si dedicano soprattutto all’assistenza sul territorio, dimostrata dai fatti e dalle cifre del tutto carente. E da questa scelta e destinazione, vista ovviamente la prevalenza, non sono venute meno le infermiere.

Anche gli orari si sono modificati?
Anche in questo caso sì. Per due ragioni sostanziali. La prima è la necessità di assistere per più tempo i pazienti Covid-19 a tutti i livelli del loro trattamento, dalle terapie intensive all’assistenza domiciliare. La seconda è legata alla carenza ormai cronica di infermieri nel nostro Paese. La Federazione sono anni che denuncia la mancanza di almeno 22mila infermieri negli ospedali e 31mila sul territorio e in questa vicenda purtroppo questa assenza di organici si è toccata con mano, tanto da dover far scendere in campo anche pensionati richiamati in servizio o neo laureati anche con procedure di urgenza. La carenza e la necessità non hanno modificato i turni, li hanno fatti, soprattutto nelle Regioni maggiormente colpite, saltare del tutto, con una permanenza dei nostri professionisti, che non lasciano mai soli i malati, anche di 10-12 ore continuate accanto ai pazienti nelle strutture di ricovero e comunque sulle ambulanze o nell’assistenza domiciliare.

Può fare un esempio di una giornata tipo di un’infermiera in questo periodo?
È presto detto. Dal mattino alla sera o anche dalla sera alla mattina la prima cosa da fare è indossare le protezioni individuali, quando ci sono e quelle che ci sono, visto che solo da un paio di settimane si stanno approvvigionano professionisti e strutture. Poi si rimane così, accanto ai pazienti, per tutto il tempo del servizio da svolgere e spesso anche di più, proprio, ripeto, per non lasciare solo nessuno in questi frangenti. Durante la “giornata tipo” di un’infermiera poi non ci sono altri contatti se non con i colleghi e scarse volte con i parenti dei malati che non possono nemmeno accedere alle strutture.

Di quali tutele ha bisogno oggi un’infermiera che si trova “sul fronte”?
Prima di tutto e come tutti di dispositivi di protezione individuale quantitativamente e qualitativamente validi e sufficienti. Questa è la prima necessità che spesso è venuta meno, come si comprende bene dal fatto che tra gli operatori sanitari la metà di quelli positivi sono infermieri e che purtroppo dobbiamo registrare anche numerosi decessi, in aumento, per via dell’infezione. 
Ecco, un dato che ovviamente deriva dalla numerosità delle infermiere rispetto ai colleghi di sesso maschile è che se anche è stata rilevata una maggior incidenza dei decessi a livello generale tra la popolazione maschile per Covid-19, tra gli infermieri il 53% circa dei deceduti è donna e spesso anche con un’età che non supera i 50 anni.

Oltre al pericolo di contrarre il Covid-19, anche prima dell’emergenza sanitaria quello infermieristico era comunque un lavoro a rischio: quali corre, dal punto di vista fisico e psicologico, un’infermiera?
Un’infermiera corre gli stessi rischi dei suoi colleghi maschi. E sono rischi legati ovviamente al tipo di professione svolta (quindi di contrarre patologie e di incorrere in incidenti come punture, cadute, sforzi fisici eccessivi legati anche alla mobilitazione dei pazienti a cui nei casi più gravi è necessario provveda un infermiere per la sua preparazione clinica). Ma sono rischi legati anche – e anche prima di Covid-19 – allo stress eccessivo dovuto ancora una volta alla carenza di organici. Nella popolazione infermieristica lo stress lavorativo è stato associato a disturbi del sonno, fatica cronica, dolori muscoloscheletrici, dispepsia e sindrome del colon irritabile, mal di testa, depressione, burnout, percezione soggettiva di scarsa salute, insoddisfazione lavorativa, demotivazione, elevato turnover, assenteismo, infortunio, abuso di alcool, farmaci e tabagismo. Un impatto diverso in funzione della soggettività di ciascun infermiere variando considerevolmente anche tra i diversi ambienti e le differenti aree d’intervento o anche in base ad aspetti oggettivi della realtà lavorativa e alle scelte operate nelle condizioni e nel contesto organizzativo di lavoro. Anche per questo la FNOPI ha avviato a Pasqua una raccolta fondi #NoiConGliInfermieri [www.noicongliinfermieri.org n.d.r.] per supportare gli infermieri colpiti dal virus in riabilitazione, quelli in quarantena e le famiglie dei deceduti nella lotta contro il virus che sta avendo già ottimi risultati. Tutti stanno rispondendo bene. Soprattutto ci ha colpito la solidarietà che stanno manifestando le associazioni dei cittadini-pazienti e tutto l’associazionismo in genere anche trasformandosi in sponsor dell’iniziativa perché, come dichiarano, hanno bisogno degli infermieri e non solo nell’epoca del coronavirus.

La sensibilità femminile è messa a dura prova da quanto sta accadendo durante l’emergenza sanitaria. Può raccontarci un episodio che le ha toccato il cuore?
Sicuramente sì, ma è proprio la sensibilità femminile che a volte travalica l’assistenza per delineare un’umanità di cui solo gli infermieri hanno dato una testimonianza reale. Gli episodi in questo senso sono all’ordine del giorno e in tutte le Regioni o tipo di strutture. Vorrei ricordare solo l’esempio testimoniato proprio da un’infermiera e ripetuto più volte dai media. La collega, operatore del 118 che in questo periodo vive praticamente sulle ambulanze, si è trovata in una RSA dove tra tanti anziani presenti circa un terzo sono deceduti per Covid-19 (sempre per mancanza dall’inizio di protezioni individuali soprattutto). Il soccorso era per una donna 89enne per la quale ormai non c’era più nulla da fare, come anche rilevati dal medico che l’infermiera stessa ha convocato sul posto. Ma lei ha scelto di rimanere lì, accanto a quella signora, per non farla essere solo proprio nell’ultimo momento della sua vita. E l’ha accarezzata e le ha fatto sentire la vicinanza di un altro essere umano, anche se si è sentita in crisi per doverlo fare con tripli guanti e tute anti infezione. E lo ha fatto perché nessuno – gli infermieri di questo sono convinti e lo abbiamo scritto anche nl nostro Codice deontologico – deve restare solo, nessuno soprattutto in moment come quello. Ma lo ha fatto anche leggendo la paura negli occhi degli altri operatori presenti nella struttura. Lo ha fatto per sensibilità, per umanità. Lo ha fatto perché è un’infermiera.  

L’infermiera spesso è anche mamma: cosa è cambiato in questo periodo nel rapporto con i figli quando torna a casa?
Quando torna a casa, dice? In questa vicenda stiamo assistendo ormai troppo spesso a nostre colleghe che non vedono la propria famiglia da settimane. Un’infermiera, ma anche un infermiere, impegnato sul fronte di Covid-19 quando finisce il suo turno di lavoro è davvero difficile, se non improbabile o addirittura impossibile, che torni a casa con il rischio che rischiano ancora di più.
Il rapporto con la propria famiglia è spesso legato a un cellulare o a un tablet. E di qui nasce anche un altro problema psicologico che si può facilmente immaginare: anche gli infermieri soffrono di solitudine e nel caso che descrive lei di una mamma infermiera, di paure e preoccupazioni per la propria famiglia e i propri figli.

A chi opera nel settore sanitario è stato dato un premio di 100 euro, pensa sia un riconoscimento economico sufficiente?
Non scherziamo per favore. Lei ritiene che si possa affrontare tutto quello che abbiamo descritto finora, rischi e disagi compresi, per 100 euro una tantum? Non voglio nemmeno prendere in considerazione un “premio” del genere. Tanto che alcune Regioni, quelle dove i rischi sono maggiori, hanno alzato il livello a 1.000 euro, ma anche qui siamo difronte a qualcosa che se da un lato resta comunque insufficiente dal punto di vista formale rispetto ai rischi e alla mole di lavoro, dall’altro non è sicuramente la ragione per cui gli infermieri – come tutti i professionisti sanitari impegnati sul fronte Covid-19 – stanno dando tutti se stessi per fare in modo che si salvino più vite possibili, che Covid-19  sia sconfitto prima che si può.

In generale, a prescindere da quanto sta accadendo in questi giorni, il lavoro infermieristico ha secondo lei un adeguato riconoscimento dal punto di vista sociale?
Direi che finora ci si è “dimenticati” spesso del valore, della professionalità e del livello di formazione e preparazione degli infermieri. Lo stesso Presidente del Consiglio ha dichiarato alla Camera che finita l’emergenza il Governo non si dimenticherà più degli infermieri. Ormai tutti definiscono gli infermieri “eroi”, ma non è così: siamo professionisti che conoscono la propria responsabilità e le proprie capacità e le mettiamo in pratica ogni giorno, così come abbiamo sempre fatto, anche prima di Covid-19 che ha solo acceso i riflettori su qualcosa che c’era già, ma che nessuno vedeva chiaramente o forse non voleva vedere.  

Quali misure si potrebbero mettere in atto per supportare chi lavora in questo campo?
La risposta è ricollegata strettamente alla domanda precedente. Appena l’emergenza sarà terminata si dovrà necessariamente rivedere la consistenza degli organici: prima di Covid al tavolo dei fabbisogni ogni anno chiediamo di riservare alle lauree infermieristica circa il 15-20% dei posti in più rispetto a quelli chiesti dalle Regioni (sempre al ribasso prima dell’attuale situazione) e a quelli stabiliti dal ministero dell’università. Ora, dopo l’esperienza Covid, appare chiara la richiesta, soprattutto per il territorio dove si sono visti purtroppo gli effetti della mancanza di professionisti in grado di assistere i cittadini ad esempio gli anziani nelle RSA, dove la mortalità con Covid-19  è aumentata quasi del 50% rispetto alle rilevazioni dello stesso periodo dello scorso anno, con una concentrazione maggiore soprattutto al Nord e in particolare in Lombardia ed in Emilia Romagna, dove i decessi legati a Covid-19  in queste strutture sono stati tra il 54 e il 57% di quelli totali. Da rivedere per gli infermieri saranno sia le retribuzioni (oggi la media è di 1.400-1.500 euro al mese per la mole e il tipo di lavoro che ormai sono sotto gli occhi di tutti) che l’iter formativo, prevedendo specializzazioni infermieristiche che anche in questo caso si sono dimostrate necessarie nell’emergenza dove la stessa Protezione civile le ha chieste per la task force da destinare alle zone rosse. Specializzazioni per le quali oggi gli infermieri, che hanno oltre la laurea triennale quella quinquennale e i dottorati di ricerca, ricorrono a master anche riconosciuti, ma pure sempre master e non regolari corsi universitari.

Professione infermiere ai tempi del Covid-19. Una panoramica in tabelle

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