Ambiente Imprenditoria

La filiera lattiero casearia italiana per l’ambiente

La filiera lattiero casearia italiana alle prese con la sfida della sostenibilità si è già attivata per attuare politiche imprenditoriali adeguate, ecco quali

Nell’ambito del progetto europeo “Think Milk, Taste Europe, Be Smart!” per una comunicazione corretta sull’argomento latte, una campagna di informazione che si propone di migliorare il grado di conoscenza dei prodotti agricoli dell’Unione e aumentare la fiducia del consumatore, si è tenuto a Roma un convegno organizzato da Alleanza Cooperative Agroalimentari nel quale esponenti del settore pubblico e privato hanno presentato lo stato dell’arte e i progetti attivati per la sostenibilità della filiera lattiero casearia italiana. I relatori del convegno hanno trattato i temi della sostenibilità ambientale, della sostenibilità sociale e del benessere animale (aspetto sul quale c’è molta disinformazione soprattutto a causa dell’uso scorretto dei social media da parte di persone poco competenti in materia).

La filiera lattiero casearia in cooperazione
L’evento è stato organizzato dall’Alleanza delle cooperative agroalimentari per un motivo semplice e diretto: in Italia 7 bicchieri di latte su 10 sono prodotti in cooperativa. Il mondo cooperativo è composto da 12 milioni di soci lavoratori per un totale di oltre 70.000 cooperative (in tutta Europa sono 176.000) che, tra l’altro, danno lavoro a più di 1,3 milioni di persone e fatturano oltre 160 miliardi di euro l’anno. La filiera lattiero casearia italiana è leader nelle produzioni DOP (Denominazione d’origine protetta) e autosufficiente per il 90%. Nelle sue 24.000 stalle si producono 13 milioni di tonnellate di latte ogni anno di cui il 65% è raccolto in cooperativa. Le cooperative coprono il 45% del fatturato totale della filiera e sono 700 imprese, con 17.000 allevatori e 15.000 addetti. Per comprendere la portata del mondo cooperativo all’interno del comparto basta citare qualche marchio: Granarolo, Yomo, Latteria Soresina, Parmareggio, Arborea sono tutte cooperative della filiera lattiero casearia italiana.

La territorialità della filiera lattiero casearia italiana
Nel Nord Italia troviamo il maggior numero di allevamenti ma bisogna ricordare che ogni zona del nostro Paese, ogni territorio, ha le proprie razze, le proprie modalità di allevamento oltre al proprio tipo di prodotto. Non per nulla si parla di formaggi DOP, come il gorgonzola, il provolone, il pecorino, il parmigiano reggiano, ecc. Le cooperative in particolare hanno un forte legame con il territorio perché per statuto devono lavorare tutto il latte prodotto dai propri soci. Soci che sono espressione dell’area geografica dove operano con “produzioni che sintetizzano la storia, la cultura e la biodiversità del territorio di riferimento” spiega Giovanni Guarnieri, il presidente dell’Alleanza cooperative agroalimentari. “Tutto questo è l’antitesi della delocalizzazione. Ed è ancora più evidente nelle aree montane a rischio spopolamento, dove la cooperazione è l’unica forma di impresa possibile a garanzia del tessuto socio-economico locale; le cooperative generano valore per poi redistribuirlo nel territorio di produzione”.

L’impatto ambientale della filiera lattiero casearia italiana
L’impatto ambientale c’è, inutile negarlo, e bisogna ancora lavorarci sopra anche se diverse azioni per ridurlo sono già state implementate. Ma non è così surclassante come si vorrebbe far credere. I dati ISPRA infatti indicano che l’agricoltura (compreso l’allevamento) tra le varie fonti di emissioni ecoimpattanti (emissioni di gas serra o equivalenti) è al penultimo posto. Per il 25,3% (al primo posto) pesa infatti il settore dei trasporti, seguito a breve distanza dalle industrie energetiche (23,7%), poi dalle emissioni delle nostre abitazioni (residenziali e servizi) per il 19,5%. Questi tre “settori” fanno la parte del leone per quanto riguarda l’impatto negativo sull’ecosistema e sulla nostra salute. L’industria manifatturiera si situa a metà strada con l’11,9% delle emissioni impattanti seguita dall’8,1% dei processi industriali. Al penultimo posto ecco la filiera agricola al gran completo che impatta per il 7,1% e all’ultimo posto i tanto bistrattati rifiuti, che impattano solo per il 4,3% e rappresentano una ricchezza dal momento che al giorno d’oggi possono essere riciclati e riconvertiti in materie prime seconde.
Se analizziamo dal punto di vista delle emissioni di CO2 esclusivamente la filiera lattiero casearia italiana e dunque gli allevamenti, vedremo che solo un terzo di quel 7% è imputabile ad essi. Si tratta di un risultato ottenuto nel tempo: basti pensare che rispetto a 20 anni fa le emissioni degli allevamenti si sono ridotte del 18% a fronte di un contemporaneo aumento della produzione del latte del 30%. L’aumento della produzione di latte avrebbe dovuto portare a un aumento correlato di emissioni prodotte dagli allevamenti invece il dato è chiaro: ci si è impegnati e si è riusciti a ridurre l’impatto ambientale. Come? Lavorando su tre fronti:

  • Riduzione impatto ambientale – stalla (energia, fertilizzanti) – caseificio (energia, acqua) – confezionamento/distribuzione (incarti, trasporti);
  • Miglioramento Benessere Animale (stabulazione, salute, etologia);
  • Presidio Territorio e Biodiversità (zone svantaggiate, montagna, razze locali).

Si è aumentata l’efficienza produttiva, si usa meno energia e meno fertilizzante perché si impiegano gli “scarti di filiera”: energia (gas metano) prodotta da reflui zootecnici, stallatico per concime. E ancora: impianti fotovoltaici sui tetti per rinfrescare le stalle in estate nonché i magazzini dei formaggi; acqua di scarto del siero per fare i formaggi trattata, filtrata e reimmessa in circolo, poi usata per pulire; imballi monopolimero (nessun accoppiamento carta/plastica o tipi diversi di plastica) per la circolarità e il riciclo dei rifiuti o imballi 100% organici con effetti barriera per la totale salubrità da riutilizzare.

 

Il benessere animale
Nella filiera lattiero casearia italiana il benessere animale viene considerato, soprattutto nei grandi allevamenti e nelle grandi stalle. E andiamo a sfatare qualche mito. Vacche che corrono felici sui prati? Impossibile. Per una mucca correre è dolorosissimo e lo fa solo quando viene spaventata: il terrore è l’unico motivo che la spinge ad aumentare l’andatura perché la sua zampa, il suo piede, termina con un dito e si poggia al terreno solo con l’unghia (lo zoccolo questo è) di quel dito, inoltre le vacche da latte sono costrette a trascinare delle mammelle enormi e pesanti decine di chili estremamente dolenti, figurarsi quando vengono sottoposte agli scossoni della corsa. E a proposito di mammelle: credete che la mungitura fatta a mano sia meglio di quella con le macchine? Sbagliate di grosso: una vacca fa circa 60 litri di latte al giorno e i piccoli allevatori “tradizionali” la munge un paio di volte al giorno negli orari che più gli fanno comodo spingendo la mammella e strizzandole il capezzolo; le moderne stalle provviste di robot per la mungitura permettono alle vacche che si muovono liberamente di andare a farsi mungere delicatamente quando ne sentono il bisogno perché la monta lattea lo esige. I robot per la mungitura rappresentano dunque un metodo molto più naturale rispetto alla violenza della mungitura a mano. Come spiega Luigi Bertocchi, responsabile Benessere animale dell’IZSLER (Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna), oggi sono stati grandi passi avanti nella tutela degli animali da stalla. Il benessere animale viene valutato dal punto di vista non solo della salute propriamente detta ma anche da quello delle funzioni biologiche e dello stato emotivo. Si valuta l’ambiente in cui vive l’animale, le condizioni in cui vive e come si comporta. L’indicatore del comportamento è fondamentale perché ogni azione dell’animale corrisponde a una situazione di disagio o di serenità. Per fare degli esempi per quanto riguarda la mucca, l’attuale sistema di valutazione utilizzato si chiama Classyfarm e valuta anche i segnali di questo tipo: la vacca gioca con la lingua? Vuol dire che è annoiata. La vacca continua a muoversi sui piedi? Vuol dire che ha un dolore. Muggisce continuamente? È stressata. Insomma le mucche provano disagio, stanchezza, frustrazione, paura proprio come noi umani. Rispetto ai parametri molto alti che occorrono (punteggio minimo 60 per “passare l’esame” di ben 105 indicatori di rischio, ovvero i fattori negativi per il benessere animale) la filiera lattiero casearia italiana su 24.515 allevamenti da latte (BDN) e 2.636.075 capi (BDN) ha mostrato un punteggio molto alto: il 70% delle vacche da latte in stabulazione libera si trova in condizioni ottime e solo il 3% in cattive condizioni.

 

“Il benessere animale è aumentato molto” spiega Bertocchi “perché sono cambiati i manager. I giovani manager di oggi sanno che il benessere animale porta a un aumento della produzione del latte di qualità e così oggi danno un’alimentazione bilanciata in base al peso dell’animale, nelle stalle ci sono delle spazzole che li rilassano quando hanno voglia, ci sono degli oscillometri per capire quando l’animale è sdraiato, poiché deve riposare 14 ore al giorno; l’umidità e la temperatura vengono controllate in modo che quando ha caldo la mucca può entrare in stalla a rinfrescarsi. Insomma la realtà è contraria a quanto si pensa: nelle stalle moderne le vacche stanno molto meglio rispetto agli allevamenti tradizionali del contadino vecchio stampo”.

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