Imprenditoria Studi e ricerche

Imprese alimentari e consumatori, un’intesa possibile

Una nuova cultura della nutrizione, con informazioni certe e qualificate per unire imprese alimentari e consumatori al di là del marketing d’assalto

In occasione della giornata che ogni anno il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) Alimenti e Nutrizione dedica alla nutrizione, “Nutrinformarsi”, presso la sede romana si sono riuniti i rappresentanti delle istituzioni e degli enti di ricerca, delle imprese alimentari e del mondo del giornalismo di settore per analizzare e discutere gli ultimi dati disponibili sui consumi alimentari degli italiani dal punto di vista della salute umana e della sostenibilità. D’altro canto, come ha sottolineato nell’occasione il direttore Crea Alimenti e nutrizione, Emanuele Marconi, l’ente da 40 anni si occupa di realizzare studi che riguardano anche gli elementi nocivi che i consumatori assumono con gli alimenti.

Imprese alimentari, ricerca scientifica e consumatori
Il commissario straordinario del Crea, Mario Pezzotti, non ha dubbi sul ruolo fondamentale della ricerca effettuata dagli enti pubblici, dal momento che possono arrivare a contattare un campione rappresentativo dei consumatori e mettere a disposizione della comunità scientifica i risultati ottenuti. Lo scopo finale? Avere dati attendibili, aggiornati, che identifichino immediatamente gli indirizzi dei consumatori per poterli eventualmente reindirizzare verso consumi alimentari più corretti, applicando la scienza al passo anche di chi produce gli alimenti e considerando che “la formazione e l’educazione della popolazione non va lasciata in mano a chi ha interessi non scientifici”.

Il marketing etico delle imprese alimentari
Oggi il paradigma della comunicazione di marketing deve cambiare e tener conto dell’aspetto psicologico dei consumatori, delle loro scelte basate non sulla razionalità ma sull’emotività. Imprenditori con pochi scrupoli applicano tecniche poco etiche, considerando il consumatore solo come utente finale e approfittando del comportamento paradossale e contraddittorio di chi va a fare la spesa. Il nuovo marketing etico delle imprese alimentari dovrebbe invece considerare il consumatore come un alleato nel processo di innovazione, non un ostacolo, partendo già dalla fase di Ricerca & Sviluppo.
Se è vero che si dibatte sempre più sui consumi alimentari, le discipline che se ne occupano però sono principalmente quelle mediche (com’è giusto che sia) e sono ancora poche quelle psicologiche (appena il 3%) e sociologiche (il 4%). In realtà, come spiega Guendalina Graffigna, docente ordinario di psicologia dei consumi e della salute, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, “bisogna costruire spazi di coprogettazione con il consumatore, tra sapere scientifico e sapere laico”.

Il marketing del “senza”
Senza glutine, senza zuccheri aggiunti, senza lattosio, senza olio di palma… e potremmo continuare a lungo. Le imprese alimentari (ma non solo, basti pensare agli shampoo “senza glutine”!) sfruttano appieno le incompetenze dei consumatori causando un impatto sulla loro salute, in quanto questi sono convinti che tutto ciò che è “senza” qualche particolare ingrediente sia più salutare; una convinzione errata non supportata da ragioni mediche e scientifiche ma solo psicosociali: se non si è intolleranti al lattosio non c’è alcun problema ad assumerlo; se non si è celiaci perché rinunciare al glutine (di cui, anzi, abbiamo bisogno)? E perché demonizzare l’olio di palma non sapendo che in realtà ne esistono di diversi tipi e non sapendo quali sono gli effettivi limiti quantitativi di assunzione?

Una survey dai risultati che fanno sorridere
Con i ricercatori dell’ateneo la prof. Graffigna ha portato avanti alcune indagini. Una di queste è consistita in una survey online sui prodotti da forno dolci e salati in cui, accanto a prodotti che in etichetta riportavano la dicitura “senza…”, ne hanno inseriti alcuni con etichetta fake: “senza grassi polinsaturi” (che sono, per intenderci, quelli che “fanno bene”, come ad esempio l’Omega 3) e addirittura “senza Co2” (il biossido di carbonio, l’anidride carbonica). I risultati sono stati talmente assurdi da strappare più di un sorriso (amaro): si è riscontrato che le etichette modificano la qualità percepita e persino il senso del gusto. I due prodotti fake sono risultati i più salutari in assoluto e il prodotto superpremiato è stato quello “senza Co2”!

Sulla bassissima alfabetizzazione alimentare giocano le attività di comunicazione e marketing delle imprese alimentari prive di scrupoli, inducendo in errore i clienti grazie al packaging, consapevoli del fatto che tanto il consumatore medio non si informa tramite stampa o canali ufficiali. Per fare qualche esempio dei comportamenti dovuti a informazioni “deviate”: se è bio è meglio e se la confezione è verdina o marroncina vuol dire che è bio e che quindi ha un sapore migliore; se il prodotto non ha olio di palma fa bene e va sempre acquistato; se il prodotto è dolce va evitato come la peste. Si tratta dell’“effetto framing”, ovvero delle decisioni di acquisto fatte con razionalità limitata per effetto del contesto comunicativo. E non ci sono differenze anagrafiche o culturali che contino.

Come i consumatori usano il cibo
Le imprese alimentari possono considerare anche gli aspetti psicologici più significativi per capire come strutturare il proprio marketing aziendale. Un fattore fondamentale sta nell’uso paticolare che i consumatori fanno del cibo: non lo considerano un semplice nutrimento o una fonte di energia; lo considerano come fonte di bilanciamento emotivo, come autorealizzazione personale, affermazione dei propri valori etici; lo usano per affermare il proprio ruolo sociale nella comunità, come legame sociale, simbolo e consolidamento delle relazioni emotive. Un esempio? La riduzione del consumo di carne rossa non dipende tanto dalla preoccupazione per la propria salute quanto da un più generale orientamento politico salutistico (oseremmo dire da una “moda etica”) e di sensibilità nei confronti degli animali e del loro benessere, che nascondono in realtà un bisogno di affermazione sociale.

Consumatori in balia delle proprie emozioni
Gli studi effettuati sulle popolazioni cliniche confermano i dati delle altre ricerche su popolazioni sane: chi ha una patologia gastrointestinale dovrebbe fare particolare attenzione a ciò che mangia ma si è scoperto che il suo modo di nutrirsi non è ma accompagnato da considerazioni sulla propria salute e che questi soggetti sono in completa balia delle proprie emozioni. Per fare un esempio, usano come comfort food proprio i cibi infiammatori come il cioccolato e il fritto, pur sapendo che dopo aversi assunti staranno male.
Analizzando il comportamento delle persone affette da patologie gastrointestinali, si è appurato che esistono 4 categorie di pazienti tra le quali risalta la peggiore: chi di salute sta peggio proprio perché vuole cibo piacevole che usa per gestire l’umore e non è interessato affatto al cibo sano.

Una popolazione di bimbi obesi
I dati dell’ultimo (il 4°) studio sui consumi alimentari in Italia indicano che nel nostro Paese gli obesi sono soprattutto gli anziani e i bambini dai 3 ai 9 anni. A prescindere dal genere, anche se tra i maschi ci sono più sovrappeso rispetto alle femmine. E ci sono più obesi al Sud.
I pasti privilegiati, al contrario di quanto suggerisce la sana dieta mediterranea, sono le cene, probabilmente per via dei pranzi consumati frettolosamente nelle pause del lavoro. Il consumo di carne è diminuito ma gli adolescenti ne consumano veramente troppa, 3 volte i livelli massimi raccomandati.

Il consumo di pesce e legumi, che per motivi di salute dovrebbe sostituire la carne, sono molto più bassi di quelli consigliati. E la quota di carne processata (che dovrebbe essere consumata solo occasionalmente) è altissima, con il consumo di carne di maiale che aumenta con l’età. Il consumo degli alimenti principe della dieta mediterranea, frutta e verdura, è veramente scarso, soprattutto da parte di bambini e adolescenti. Ne mangiano adeguatamente solo il 23% dei bambini e solo il 39% degli adulti. Altro che 5 porzioni giornaliere di frutta e verdura!
Ma all’obesità dei bambini in particolare cosa contribuisce? Per il 17% contribuiscono i dolciumi e per il 12% i succhi di frutta e le bevande zuccherate: basterebbe ridurre questi per tornare al consumo raccomandato, che non è certo zero. Ogni giorno possiamo assumere zuccheri fino al 15% delle calorie che immettiamo mangiando. Ma non di più.

Imprese alimentari e utilizzo dei dati scientifici
Ricerche e indagini ufficiali con dati seri e attendibili rappresentano la base su cui costruire una produzione e una comunicazione etica e responsabile. E i dati scientifici servono anche per implementare processi produttivi innovativi dal punto di vista tecnologico, magari grazie all’agricoltura di precisione, come ha spiegato il presidente di Coldiretti Ettore Prandini. Grazie alla tecnologia si è ridotto l’uso di prodotti fitosanitari e il consumo di acqua; grazie a dati delle ricerche si può monitorare l’intera filiera per evitare speculazioni sui prezzi. Prandini spiega che le imprese alimentari e agricole di oggi fanno attenzione alla salute e alla qualità della vita dei consumatori e che oggi l’agricoltura italiana è la più sostenibile a livello globale, ma si potrebbe fare di più se i poteri politici decidessero di investire in ricerca e formazione – l’Italia è uno dei Paesi che vi ha investito di meno perché le vede come un costo – e se si portasse la banda larga in tutti i territori.

Imprese alimentari industriali
Presente all’evento anche Mario Piccialuti, direttore generale Unione italiana food, che rappresenta 500 imprese alimentari industriali (cibo confezionato) di cui il 50% con brand noti. Piccialuti ha ribadito l’importanza degli studi, utili per definire gli schemi dei consumatori italiani in un dato momento storico, per intercettare le tendenze di consumo reale e capire cosa succederà. Dati utili quindi per definire le politiche di marketing aziendale ma con una sensibilità etica: “noi dobbiamo sì pensare al mercato, ma intervenendo sulla qualità degli alimenti offerti. Poiché, per fare un esempio, in passato si è intervenuti a livello governativo tassando lo zucchero e si è visto che non ha funzionato, abbiamo lavorato con l’allora ministra della salute Lorenzin sull’elemento culturale”. Piccialuti spiega che le imprese alimentari industriali hanno lavorato sulla porzionatura, o facendo delle monoporzioni o scrivendo in etichetta la quantità (o il peso) di una porzione. Su questo possono lavorare le industrie che confezionano i loro prodotti ma se poi, una volta a casa, il consumatore si fa prendere la mano o non sa dire di no ai propri figli, ecco che una porzione diventano due o tre… È risaputo ad esempio che una porzione di pasta deve essere di 70 grammi, ma se la si prende due volte al giorno… Stessa cosa per quanto riguarda il ristorante, il bar o la pasticceria: tutti luoghi che vendono il cibo sfuso e che rappresentano il 50% del consumato italiano. Se si va al bar e si mettono due cucchiaini di zucchero nel caffè, magari prendendolo due o tre volte al giorno, come si può mantenere il controllo sulle porzioni raccomandate per la propria salute?

Insomma i fattori da considerare sono molti e noi auspichiamo che i cittadini inizino a informarsi tramite fonti attendibili e non da chi ha interesse a strumentalizzare l’informazione dandola distorta per i più disparati motivi, che possono anche essere puro divertimento (come fanno i troll sui social) o per alimentare polemiche per ottenere visibilità personale a livello mediatico.

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